Si conclude il Meeting, con il suo carico di testimonianze, giudizi ed emozioni su tutti i punti caldi della vita e della storia. Anche sulla politica sono emerse cose importanti. Tra queste mi sembra sia emerso un dato chiaro: che la politica non è morta e che non è legata alle vicende personali dei suoi protagonisti, singoli o di partito. Prendendo spunto dalle considerazioni di Piero Ostellino sul Corriere, e da alcune importanti sottolineature ascoltate a Rimini, si può dire che è finita sia la politica fondata sull’illusione dello Stato interventista (socialista o keynesiano), sia quella affidata all’ottimistica esaltazione delle regole del mercato (soprattutto finanziario). Non tramonta, invece, la necessità che le dinamiche economiche vengano regolate da criteri e principi che guardino al bene comune e che i conflitti trovino un luogo di confronto nelle istituzioni parlamentari. Se questa situazione venisse disattesa si aprirebbero strade strette, scorciatoie in cui l’istinto dell’uomo inevitabilmente attratto dal gusto del potere prevarrebbe, trasformandosi in una delle tante forme di dispotismo che la storia conosce.



La politica non è sostituibile. Nè dalla tecnica né dalla filosofia, né dall’arte né dalla stessa esperienza religiosa, qualunque aspetto assumano questi fondamentali elementi della vita. La politica è altro: è l’apice verso cui spingono le domande e le esigenze più diffuse e nello stesso tempo la base che le deve rispettare ed alimentare, mai sostituendole e mai pretendendo di creare le risposte adeguate al bisogno infinito di libertà.



Detto questo, prendendo atto che viviamo una straordinaria fase di transizione, è vero che dobbiamo trovare nuove strade nella realtà italiana? Che, come osserva Ostellino, abbiamo bisogno di nuove leadership? Io rispondo di sì ad entrambe queste domande. Dal punto di osservazione della mia regione, la Sardegna, direi innanzi tutto che occorre diffondere la consapevolezza che il modello di sviluppo perseguito per anni non è più sostenibile. La nostra autonomia speciale, che considero ancora giustificata, si è fondata erroneamente su un equivoco: una maggiore autonomia coincide con maggiori flussi finanziari esterni. In questa ottica vanno letti tutti gli interventi del Piano di Rinascita, della Cassa per il Mezzogiorno, dei Fondi per le Aree sotto utilizzate, dei Fondi strutturali europei. Ma la stessa vertenza con lo Stato per l’attuazione della recente riforma del nostro Statuto, pur essendo pienamente corretta sul piano giuridico e istituzionale, è viziata da questa equivoca riduzione del valore dell’autonomia. Per semplificare direi che l’autonomia è stata indirizzata verso una riedizione dello statalismo, aggravata ed esasperata dalle spinte localistiche e dalla mancanza di autorevolezza dei partiti regionali.



Se è vero che i paesi occidentali, i Grandi di un tempo come ha osservato Mario Mauro parlando del futuro dell’Europa, sono messi alle strette da una competizione agguerrita e senza regole, se è vero che il welfare non può più essere garantito negli stessi termini del passato perchè questi Paesi sono paralizzati dalla recessione, dalla debolezza delle proprie banche e dalle dimensioni dei debiti sovrani, possono un Paese come il nostro, una Regione come la mia pensare di prendere decisioni così importanti e attuare azioni strutturali, capaci di incidere sullo sviluppo e la crescita, con l’attuale quadro politico? 

Può la mia Regione liberare risorse per favorire l’impresa, l’innovazione, il lavoro, l’educazione, se una gran parte del bilancio è saturato dalla copertura di perdite di vecchie partecipazioni statali (industrie minerarie in particolare), dai disavanzi degli enti strumentali, delle società in house e delle aziende sanitarie e, infine, da una rete di servizi alla persona dispendiosa e squilibrata? 

Una classe politica degna del suo compito deve affrontare con coraggio la sfida di un nuovo welfare, di una nuova strategia per le imprese, di una vera scommessa sul capitale umano attraverso l’educazione e la ricerca. Ma possono gli attuali partiti, e quegli ancora informi marchi elettorali che si stanno presentando sulla scena, essere in grado non solo di conquistare seggi, ma anche di governare? La risposta è nel futuro, ma possiamo già dire che l’attuale offerta politica è caratterizzata da alcuni partiti che si pongono esplicitamente come obiettivo quello di governare il Paese. Altri mostrano implicitamente di non avere una reale intenzione di assumersi la responsabilità di governare, ma soltanto di conquistare spazi per difendere legittimi ma parziali settori e interessi. E i partiti “governativi” a loro volta hanno al proprio interno forze che spingono in varie direzioni centrifughe e demagogiche.

Questa articolazione dell’offerta rischia di portarci ad una composizione parlamentare “balcanizzata” e ad un governo che non avrà alcuna capacità di incidere sui problemi che abbiamo. Gli attuali leader dei partiti governativi oggi hanno una grande responsabilità. Possono cedere alla tentazione, da un lato, di cogliere l’attimo fuggente di una vittoria con una coalizione tanto eterogenea da non riuscire poi ad attuare alcuna riforma o, dall’altro, di garantirsi una sopravvivenza parlamentare in attesa di tempi migliori. Oppure possono prendere atto che un contributo al nostro Paese e alle nostre Regioni può essere dato concentrando le migliori qualità e la maggiore quantità del proprio peso sul compito di condurci fuori dalla crisi.

Tutto ciò lo si può fare, nel pieno rispetto del pluralismo, prima o dopo le elezioni, secondo quale sarà il contenuto della legge elettorale. Ma una domanda è ragionevole: perchè non dirlo prima e subito, evitando illusioni e disillusioni, ipocrisie e recriminazioni? Non sarebbe anche questo un passo verso una democrazia più matura, fatta da protagonisti che sanno parlare al cuore delle persone e non alla loro pancia? In ogni caso, per noi che abbiamo creduto in una possibile novità nella politica non sarà giunto il momento di rischiare tutto, anche a costo di perdere tutto?