(Da l’Avvenire di martedì 25 settembre. Di Massimo Calvi)
Lo Stato sociale? Finirà presto, se non cambia. Su questo punto sono d’accordo in molti, soprattutto in tempi di spending review e crisi dei debiti sovrani. Il punto è come trasformare il caro, vecchio, protettivo – e soprattutto universalistico – welfare europeo, in qualcosa di adeguato al nuovo contesto, cioè in un sistema capace di reggersi garantendo ancora servizi a costi accessibili, senza rinunciare alla qualità. È proprio su questo punto, però, che dopo aver individuato il problema, molte delle proposte “tecniche” finiscono per non reggere più, ingabbiate nella dialettica sterile tra statalismo e liberismo. Cioè: o fa tutto lo Stato, o lasciamo la risposta al mercato. Fine. Con un’aggravante: che la prospettiva offerta è sempre e solo quella dell’individuo solitario il quale deve risolvere un proprio problema personale di welfare, mai quella delle persone che si chiedono come agire insieme per il bene della collettività.
È in questo scenario che Giorgio Vittadini, docente di statistica all’Università di Milano Bicocca e presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, rilancia il modello di un welfare sussidiario e responsabile, dove pubblico, privato e realtà non profit interagiscono partendo dal presupposto che comunque “si deve dare la priorità alle iniziative che nascono dal basso, dalle persone e dalle comunità, per la realizzazione del bene comune, imponendo ai livelli superiori di non sostituirsi a quelli inferiori, ma di aiutarli a svilupparsi”. Un’idea, quella di uno Stato sociale animato dal non profit, che non è mai stata abbracciata realmente né dalla cultura di destra, né tantomeno da quella di sinistra. Ma Vittadini – che sulla questione ha curato una raccolta di saggi con Lorenza Violini, professore di diritto costituzionale (La sfida del cambiamento – Superare la crisi senza sacrificare nessuno, Bur, pagine 430, euro 10,90) – va oltre, e oggi propone quello che chiama “welfare della responsabilità. Un modello”, spiega, “che si basa sulla collaborazione tra i soggetti sociali, come le famiglie, e gli erogatori dei servizi, sia che si tratti di enti pubblici o privati, nati in seno alla società civile e portatori di un’identità e di una missione con forti connotati ideali”.
Un modello dove cadono gli steccati ideologici e nel quale il privato sociale e il non profit non sono più considerati semplici supplenti dello Stato, ma protagonisti che lo Stato deve sostenere creando le condizioni per una effettiva libertà di scelta. “Il valore aggiunto del welfare sussidiario”, spiega ancora Vittadini, “non si può quantificare in termini meramente economici, ma deriva dal surplus di senso proveniente dalla relazione tra gli utenti e chi fornisce i servizi”. Esempi possono aiutare a comprendere meglio. Come le charter school degli Stati Uniti, istituti pubblici, sostenuti dallo Stato, ma gestiti dalle famiglie o dai professori; o ancora ospedali pubblici dove la governance è in mano ai medici.
“Non è più una questione di destra o sinistra, di pubblico o privato”, chiarisce Vittadini, “lo scopo di iniziative di questo tipo è migliorare le condizioni della scuola o della sanità. E funzionano. Finora abbiamo preso solo la parte deteriore dei modelli anglosassoni, centrata su un’idea errata di uomo economico. Oggi c’è bisogno di un welfare dove la sussidiarietà è un principio che valorizza la capacità di iniziativa ‘dal basso’ anche nella realizzazione di un’impresa e dove la responsabilità ideale del soggetto diventa un modello di governance“.
È chiaro va ribaltata la visione hobbesiana negativa di uomo, nella quale l’individuo non è in grado di affermare il bene comune, prerogativa invece dello Stato o della fantomatica mano invisibile del mercato per regolarsi, per riproporre invece una visione antropologica positiva di uomo relazionale, responsabile, educato da realtà sociali. Un essere umano che, per dirla con il Nobel Kenneth Arrow, tempera il perseguimento dell’utilità individuale con i “desideri socializzanti”, formulando cioè obiettivi comuni con altri uomini.
“È inutile girarci intorno”, continua Vittadini, “se non cambiamo modello, i servizi pubblici forniti dallo Stato ce li chiude il Fondo monetario. Ma non ne usciamo con modelli meccanicistici: serve una grande scommessa sulla sussidiarietà. Perché per raggiungere l’ottimo, un reale benessere per la persona, anche nei servizi di welfare, ci si deve affidare a realtà che operano con scopi ideali al livello più prossimo dei bisognosi. Progetti come la social card o altri simili sono falliti per questo motivo”.
Questioni estranee al dibattito politico, o almeno di una politica che teme di perdere potere a favore dei cittadini o di chi ha realmente rappresentanza. Per questo, Vittadini lancia quasi un appello: “Il bene comune si persegue con compromessi virtuosi tra realtà diverse. Dividersi non serve: riconosciamo che cosa è bene comune, mettiamoci d’accordo su cosa è bene per l’Italia. E lavoriamo per realizzarlo”. Welfare a parte, in ogni caso un metodo anti crisi.
(Massimo Calvi)