Il Consiglio dei ministri va sostanzialmente deserto (e tiene in frigorifero il decreto sviluppo) perché il premier Mario Monti è a Manhattan per dire “ai mercati” che lui “ci sarà”. Strette di mano con Obama, applausi da Standard & Poor’s, congratulazioni da Marchionne. Non ce ne vorrà Monti se togliamo velocemente questo foglietto dal calendario della lunga transizione italiana. Tutti – anche il Meeting di Rimini – gli hanno riconosciuto di aver fatto scudo al Paese con il suo volto, la sua competenza, il suo impegno. E il tecnocrate, in fondo, è intellettualmente sincero proprio quando ribadisce il primato delle “forze tecniche” del mercato sul “politique d’abord”: di questi tempi è un dato di fatto assai più che un giudizio. E Monti era già scivolato su un momento di stanchezza quando, mesi fa, a cavallo dei fusi orari con l’Asia, aveva lamentato che il Paese non gli sembrava “pronto per le riforme”. Gli era stato subito perdonato.



Nessuno dubita che l’Italia appaia e sia un sistema debole: nell’economia e nelle istituzioni. Però il moralismo élitario – oltre che discutibile – non è la medicina giusta, soprattutto da chi ha massime responsabilità di governo, legittime ma non certificate dal suffragio democratico. Su IlSussidiario.net abbiamo già ricordato – senza timore di venir equivocati – che l’antipolitica delle “forze tecniche” ha già prodotto una dittatura disastrosa. Certo, in quegli anni, la nascita dell’Iri e quindi del sistema finanziario poi cementato attorno a Mediobanca (di cui Monti è discendente in linea retta) ha generato un momento strutturale importante della storia italiana successiva: nella democrazia repubblicana, nella ricostruzione economica.



Però nessuno può dimenticare che meno di un secolo fa, dopo la crisi finanziaria del ’29, il premier Benito Mussolini (prima eletto democraticamente, poi no) delegò a una tecnocrazia “apolitica” la gestione dei rapporti con i “mercati” (gli scambi valutari) e con un capitalismo industriale interno che veniva dagli arricchimenti di una guerra e già intravvedeva i profitti di quella successiva. E quel regime fu legittimato fin dall’inizio da quelle forze mentre “teneva l’ordine” nel Paese: dopo il 1925 eliminando sistematicamente ogni forma di dibattito politico interno (animato allora dai cattolici e dai socialisti).



Oggi la situazione, fortunatamente, non è paragonabile. Monti (anche se qualche volta può sembrarlo) non è l’uomo che deve ripristinare l’ordine nel Paese alla guida dei reggimenti di Wall Street. Quando va in America somiglia di più (anche se non sempre lo sembra) al De Gasperi che nel ’47 vola oltre Atlantico a cercare aiuti (non al Cuccia che già nel ’44 si accredita presso la finanza globale di allora). E l’Italia oggi è democratica anzitutto nel suo capitalismo imprenditoriale: quello che, qualche giorno fa all’Università Cattolica, ha visto il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, festeggiare per primo la carriera accademica di Alberto Quadrio Curzio, l’economista che ha scoperto il valore dei distretti e delle multinazionali tascabili.

Tutto questo il Paese se l’è guadagnato duramente negli ultimi settant’anni. Come tutti i paesi ha commesso anche errori: se il nostro debito pubblico è doppio di quello che stabiliscono i parametri dell’unione monetaria il problema è nostro, non solo della speculazione che attacca il nostro “spread” tra la nostra volontà e la nostra capacità di far valere il nostro status di Paese fondatore dell’Europa contemporanea. Però l’Italia democratica ha accumulato molte risorse: non solo, ad esempio, il risparmio delle famiglie o il tasso d’imprenditorialità di molte zone del Paese. Tra le risorse c’è anche Monti: non si butti via lui per primo da “senatore a vita”.

Non sono i “mercati” che devono sapere che lui “ci sarà” anche dopo il 2012, in qualche stanza importante della democrazia italiana in trincea. Sono gli italiani.