Dalla sua salita in campo in poi Mario Monti ha commesso una serie di errori. L’errore comunicativo più micidiale è stata la dichiarazione di voler silenziare le ali più massimaliste dello schieramento politico, che è parsa un vero e proprio oltraggio “tecnico” alla democrazia, tanto vero che lo stesso premier dimissionario, alla prima occasione, si poi è dissociato dal suo stesso dire. Altri errori sono stati commessi sul piano programmatico, con un’agenda approssimativa a detta persino di ambienti molto ben disposti, come Confindustria e il suo giornale. Addirittura nell’Agenda Monti c’è un pezzo ripetuto due volte, altri punti un po’ approssimativi sanno vagamente di copia&incolla.
Ma l’errore più grave che pesa e peserà è il subappalto dato per la selezione della sua lista a spezzoni troppo limitati e non certo inclusivi del mondo cattolico e a professionisti dell’analisi politica per nulla avvezzi, anzi contrapposti a un’idea popolare della politica stessa. Credo che quest’ultimo aspetto abbia contribuito non poco al venir meno l’uno dopo l’altro di apporti importanti. Mi riferisco, in ordine cronologico di defezione, a Oscar Giannino, che alla fine si è messo in proprio con la sua lista “Fare-Fermare il declino”; al ministro Corrado Passera che ha scelto di non candidarsi; a esponenti di alto profilo dei due schieramenti che sembravano già arruolati, come Alfredo Mantovano dal Pdl e Stefano Ceccanti del Pd, che invece hanno rinunciato del tutto ad ogni velleità politica. Infine Todi, la defezione più bruciante, con le principali sigle cattoliche che sembravano già pronte a convergere e che hanno rinunciato a farlo alla fine, dopo che avevano a lungo lavorato per favorire la nascita di una nuova e più adeguata offerta politica. E tale evidentemente non è stata valutata la lista Monti, da alcuni almeno, i quali quindi hanno fatto saltare il tavolo. Su tutti, in maggiore o minore misura, ha influito comunque la voglia di non passare sotto le forche caudine della selezione effettuata da personaggi divenuti plenipotenziari dell’iniziativa. Si è dato vita, insomma, a una conformazione così minimalista di società civile nella Lista per Monti (che pure il premier aveva detto di immaginare più ampia della sola ItaliaFutura, cioè la fondazione di Montezemolo) da porsi ai limiti dell’autoreferenzialità. Tanto che al confronto l’Udc, partito non immune certo dal personalismo, oggi appare al confronto una formazione più popolare,democratica e trasparente, e non deve meravigliare se qualche esponente della società civile e dell’associazionismo cattolico sceglie il partito di Casini, con tutti i limiti che palesa, e non la civica che fa direttamente capo al Professore, ma di fatto appaltata a Riccardi, Olivero e Montezemolo e ai loro uomini.
Ma se alla Camera saranno tre le liste a sostegno di Monti al Senato la scelta qui adottata della lista unica potrebbe dar adito ancora a un laboratorio più ampio e aperto, che potrà comunque costituire la base costituente unitaria del Partito Popolare Europeo in Italia. Proprio ieri, ad assecondare questa prospettiva, ha rassegnato le sue dimissioni dal gruppo di Strasburgo. dove era capo-delegazione del Pdl, Mario Mauro, pronto a candidarsi al Senato per la lista unica di Monti: “Avevo avvertito – ha detto Mauro – che se la campagna elettorale fosse diventata un referendum per l’Europa, io avrei scelto l’Europa”. E nonostante tutto non si è trattato di una scelta azzardata. Tutt’altro. Anzi, proprio le inadeguatezze e le sgangheratezze sopra descritte, sembrano aprire una prateria per chi vorrà dopo costruire, nel solco del partito popolare europeo, le basi per un Ppe italiano.
D’altronde le scelte fatte da Berlusconi anti-Monti, anti-tedesche e anti-euro, l’asse con la Lega e la rottura con le forze moderate renderanno complicata la permanenza del Pdl nell’ambito del Ppe. Un’alleanza, quella Pdl-Lega in cui tutti gli attori sembrano peraltro bruciati. La Lega, innanzitutto, che non è più quella di una volta dimezzata da faide interne e da scandali. E poi Giulio Tremonti, che ha contribuito e non poco a far avvitare su sé stessa l’esperienza del precedente governo, costringendo Napolitano a intervenire. Tremonti, che ricordiamo al Meeting di Rimini imbastire un grande attacco ai banchieri centrali, che aveva di mira soprattutto il ruolo e le ambizioni di Mario Draghi. L’uomo che poi, passando alla guida della Bce, è stato il più grande appoggio che abbiamo trovato, a livello monetario, nei momenti difficili. E che invece Tremonti (uno che spunta adesso come provenisse da un altro pianeta) avrebbe voluto rottamare in Italia, tarpandogli le ali.
Per non dire di Berlusconi, l’uomo che aveva portato la nave sugli scogli, e ora dice che è stata colpa dei soccorritori. Per non dire di Alfano che si è fatto più volte tarpare le ali dal capo, per mancanza di “quid”, e che si è visto negate anche le risorse per fare le primarie, che infatti non si sono tenute. Salvo poi tornare all’ovile deludendo chi aveva puntato su di lui per un cambiamento profondo. Insomma, al di là del ricompattamento della classe dirigente l’elettorato tradizionale del centrodestra ha mille motivi per voltare le spalle all’alleanza che ha fatto così cattivo uso del consenso di cinque anni fa e – al di là dei limiti attuali dell’iniziativa – ha mille ragioni per guardare lo stesso con meno sfiducia a Monti, in grado almeno di farsi valere in Europa, con la speranza che si faccia strada in Italia chi sia in grado di coadiuvarlo meglio.
Certo, se invece si guarda all’affidabilità e al tasso di democrazia di una forza politica, con tutti i limiti e le storture del caso, il Pd e Pier Luigi Bersani sono gli unici ad offrire tali garanzi. E sarà forse anche per questo che personaggi simbolo come Flavia Nardelli, segretaria dell’istituto Sturzo e figlia di Flaminio Piccoli, praticamente la quintessenza dell’essere democristiani, ha accettato la candidatura per i Democratici.
Ma se l’obiettivo è dare vita anche in Italia a un partito cristiano e moderato modello Ppe la strada nonostante tutto resta Monti e se è comprensibile, un po’ a fatica, l’atteggiamento di chi ha scelto di restare con Berlusconi molto meno si comprende la non-scelta di chi avendo ben chiara la deriva berlusconiana ancora traccheggia sperando nel ripescaggio.
Intanto tutti i giornali oggi titolano sullo scontro Bersani-Monti, ma a saper leggere fra le righe la realtà essa dice tutt’altro. Dice di un Bersani che, sì, punta i piedi e fa sapere attraverso canali ufficiosi che se vince alla Camera o avrà l’incarico o si opporrà a ogni altra soluzione, con il potere di veto che la prevedibile maggioranza alla Camera gli consentirà. E dunque in caso di pareggio al Senato sarebbe pronto anche a minacciare il ritorno al voto. Ma dietro la minaccia c’è l’offerta a Monti: è inutile che lavori per togliermi l’autosufficienza al Senato, magari regalando la vittoria al centrodestra in Lombardia. Tanto l’offerta di collaborazione è già sul tavolo, ha fatto sapere Bersani al premier, anche in caso di autosufficienza senza bisogno di inseguire il pareggio al Senato. Ingroia l’ha detto apertamente, ma è inutile aggiungere che anche l’alleato Vendola non deve aver per niente gradito l’offerta di collaborazione del Pd a Monti che lo metterebbe all’angolo. Ed è questa la vera novità di ieri, guardata peraltro benevolmente da Napolitano che dovrà dare l’incarico e auspica una base parlamentare più larga possibile. Altro che scontro Monti- Bersani.