La presa di distanza di Comunione e liberazione dalle scelte politiche dei membri di Comunione e liberazione è prima di tutto un esercizio di laicità. Può sembrare strano parlare di “laicità” a proposito di un movimento che è stato più volte accusato di essere “confessionale”; ma del resto è altrettanto strano che i critici che oggi accusano Cl di essere politicamente spaccata siano gli stessi che fino a ieri l’accusavano di essere un monolito, compattamente e acriticamente schierato dalla stessa parte politica. Il fatto è che nel dibattito pubblico italiano spesso non ascoltiamo le ragioni dei nostri contraddittori e così gli equivoci si creano, si perpetuano, e c’è anche chi ci costruisce sopra brillanti carriere di equivocante di professione. 



La laicità, una delle acquisizioni più alte raggiunte dalla civiltà cristiana (molte grandi religioni, da quella islamica a quella indù, non condividono questo stesso patrimonio culturale), consiste infatti proprio in questo: nel saper distinguere ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare. Nel caso specifico si potrebbe dire che la fede appartiene a Cristo e la politica agli uomini, e di conseguenza il giudizio sui comportamenti dei politici appartiene agli uomini, mentre quello sugli uomini appartiene a Dio. Questo ovviamente non significa indifferenza della fede nei confronti dei comportamenti dell’uomo nella società, né nei confronti del governo della cosa pubblica. Tutt’altro. La “fede è pertinente alle esigenze della vita”, e la politica può creare, o non creare, le condizioni per una buona vita: la dignità, la serenità, il benessere. E del resto i cristiani – come ha detto Benedetto XVI – “sono mossi dalla certezza che Cristo è la pietra angolare di ogni costruzione umana”. Se queste cose le può capire un non credente come me, è evidente che i credenti le capiscono benissimo.



Ma riconoscere a quel documento la laicità risulta perfino banale. Quasi un’excusatio che, per quanto mi riguarda, non era “petita”. Più interessante a mio modo di vedere è un altro aspetto. Che è racchiuso nella icastica espressione con cui don Giussani fissò i termini del rapporto tra Cl e i suoi militanti che partecipano alla vita politica (a quei tempi nel Movimento popolare e nella Dc): l’affermazione cioè di una “irrevocabile distanza critica”. Dico che è più interessante perché qui c’è un’esortazione feconda per tutti, cristiani e non cristiani, credenti e non credenti. E cioè un invito a esercitare la ragion critica nei confronti di quella attività umana tra le altre che va sotto il nome di “politica”. 



Essa infatti è a mio avviso troppo idolatrata nel nostro paese: si sente per esempio spesso dire che, se ben realizzata, la politica è la più nobile delle professioni, come se quella di un  medico o di un educatore potessero esserle inferiori (all’eccesso opposto c’è la denigrazione di chi la giudica la più ignobile delle professioni). 

Forse anche a causa del marchio che il fascismo ha impresso sulla nostra cultura nazionale, e che puntava a racchiudere la totalità dell’esperienza umana nell’attività politica e nel partito politico (l’opposto del “totus tuus” del cristiano), siamo diventati un paese decisamente iper-politicizzato, in cui cioè la politica irrompe in ogni aspetto della vita della comunità e delle persone, anche lì dove non dovrebbe e quando non vi è gradita: dall’amministrazione delle cosa pubblica (Sanità compresa), alle carriere universitarie, alle assunzioni, spesso uccidendo il merito; fino alla distorsione del dibattito pubblico, nel quale da vent’anni ormai non è più permesso chiedersi che cosa giovi al Paese, ma solo se giova a questa o a quella parte; impoverendo così drasticamente la capacità della politica di occuparsi di ciò che dovrebbe essere il suo fine, e cioè il “bene comune”.

Se proprio dovessi dire la mia, confesserei che sono contento che i membri di Cl abbiano stavolta una pluralità di possibile impegno politico e di scelta elettorale, maggiore che in passato. Perché di questo si tratta: siccome il sistema politico italiano si è arricchito di nuovi protagonisti e di maggiore articolazione, anche i militanti di Cl, come tutti i cattolici e tutti i cittadini, hanno più alternative, e spero le usino. Credo infatti che questa abbondanza, che può certamente anche indurre in confusione, sia comunque un bene per uscire da quel bipolarismo muscolare e belluino che non ha fatto bene all’Italia negli ultimi anni. Se si parlerà più del come e meno del chi, più dei programmi e meno dei leader, e se un membro di Cl avrà a disposizione tre-quattro scelte diverse ma tutte compatibili con l’“intelligenza della fede”, vuol dire che le cose migliorano.

Tra l’altro il pluralismo politico è anche un forte antidoto al cristallizzarsi delle strutture di potere, nelle quali la tentazione della corruzione, morale o materiale, può diventare troppo forte perfino per un credente. È dunque anche la condizione per cui non si debba un giorno ridire, come ha splendidamente detto Julián Carrón a proposito degli scandali che hanno colpito la Regione Lombardia: “Sono stato invaso da un dolore indicibile nel vedere che cosa abbiamo fatto della grazia ricevuta”. Perché il pluralismo è anche umiltà.

 

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