L’indice più drammatico del degrado di una civiltà è la corruzione delle parole. Essa consiste principalmente nella loro perdita di significato distintivo, nel senso che la parola viene adoperata indifferentemente da chiunque senza che introduca alcun contenuto nella comunicazione e alcuna distinzione nei comportamenti e nelle azioni a cui originariamente faceva riferimento. La parola corrotta è per certi versi sempre falsa, perché celebra l’ipocrisia di una comunicazione senza alcun contenuto determinato. 



Esempi paradigmatici sono oggi le parole “riforma” e “riformismo”. Basta leggere con attenzione i resoconti dei dibattiti politici o ascoltare i vari leader nei talk show. Tutti coloro che si propongono per governare il paese dichiarano di essere riformisti e progressisti per contrapporsi genericamente all’altra parte della società che viene altrettanto genericamente indicata come conservatrice e reazionaria. Anzi, dalla formazione politica che assume come connotato specifico la propria collocazione moderata viene prospettato il supermento definitivo dell’antica distinzione fra destra e sinistra, che sarebbe sostituita interamente dalla contrapposizione fra “riformismo” e “conservatorismo”.



L’assoluta ambiguità di queste parole nel contesto attuale inaugura la stagione dei festival dell’ipocrisia che rendono sempre più opaca la scelta di coloro che sono chiamati a votare. Come Eugenio Scalfari ha scritto, tra la cosiddetta agenda Monti, proposta dai moderati, e il programma indicato dai democratici non ci sono differenze sostanziali che possono giustificare una reciproca alternatività, sicché lo scontro si riduce alla scelta della persona che dovrà assumere il ruolo di capo del governo. È proprio questo rilievo di sostanziale omogeneità delle proposte che falsifica di fatto la comunicazione politica attenuando o eliminando ogni differenza sostanziale tra le diverse posizioni. È questo precipizio verso l’indifferenziazione delle parole che produce lo scarto sempre più abissale fra la chiacchiera politica e la realtà effettiva delle condizioni materiali del popolo elettorale che viene chiamato al voto. 



Eppure la parola riforma insieme alla parola progresso sono state nel secolo scorso il terreno reale di uno scontro politico che ha lasciato a lungo tracce nel lessico della società. Come tutti spero ricorderanno, nell’ambito della sinistra ispirata comunque alla visione marxista dell’economia, la via riformista socialdemocratica si opponeva alla via rivoluzionaria dei comunisti pur ponendosi lo stesso obiettivo finale: la progressiva riduzione della proprietà privata a forme di collettivismo più o meno statalistiche. Nonostante la differenza dei metodi – la graduale o al contrario l’immediata violenta presa del potere -, i due orientamenti erano comunque espressione dello stesso orizzonte condiviso: la fiducia che il progresso e lo sviluppo delle forze produttive avrebbero determinato una crescente disponibilità di risorse e allo stesso tempo una più ampia partecipazione alle decisioni che orientavano l’azione politica.

Almeno nelle intenzioni e nei progetti, democrazia e socialismo erano il comune obiettivo del riformismo socialdemocratico e della visione rivoluzionaria dei comunisti. A questa visione, che stava alla base di ogni forza politica di sinistra, si è contrapposto nel corso della stessa fase storica il riformismo liberale e giacobino che assumeva come centro propulsivo di ogni cambiamento politico il valore assoluto dell’individuo e della sua libertà proponendo di ridurre al minimo la presenza dello stato nell’economia e affidando al mercato e alla concorrenza la crescita della ricchezza e del benessere. Per i riformisti liberali il cambiamento si realizzava principalmente sul terreno politico amministrativo − e oggi potremmo dire prevalentemente tecnico − della semplificazione massima della legislazione e del peso della cosiddetta burocrazia pubblica. Naturalmente nella via rivoluzionaria o riformista della sinistra era decisivo il valore dell’eguaglianza sostanziale e della priorità del bene comune, mentre viceversa nel riformismo liberale l’inizio e la fine di ogni processo economico era l’individuo proprietario e l’espansione del suo capitale. 

Dopo l’’89 e la caduta del muro di Berlino, il riformismo è tornato alla ribalta assumendo sempre più la connotazione di un’offensiva neoliberale contro tutto ciò che aveva rappresentato in forme diverse la tutela pubblica del lavoro umano. Si comincia, come è facile ricordare, con l’edonismo reganiano che celebra il trionfo del godimento privato e della funzione produttiva della competizione economica. Dopo il successo di questa linea di pensiero, che tende a liquidare lo Stato sociale e ogni forma di tutela del lavoro, con la caduta del muro di Berlino scompare ogni forma di distinzione fra le due forme di economia contrapposte. 

La parola riformismo è diventata una parola assolutamente vuota come dimostra il fatto che a partire dalla grande riforma craxiana a questa parola magica non corrisponde più alcun contenuto determinato. Dirsi riformisti non significa più niente, anzi per certi aspetti la parola nel contesto globale in cui si iscrive echeggia per lo più gli orientamenti di fondo della liberalizzazione totale del capitale finanziario. L’austerità e il risparmio sociale imposto attraverso il fisco sono il pedaggio necessario che ciascun popolo deve pagare ai nuovi dèi dell’economia finanziaria. Tutte le destre neoliberiste possono così tranquillamente dichiararsi “riformiste”, come ha fatto allegramente il nostro precedente presidente del Consiglio che, non a caso, ha denominato il proprio movimento “polo della libertà”. Nessuno si preoccupa più di aggiungere qualche aggettivo alla parola riforma giacché è scontato che gli unici obiettivi della politica nazionale sono i conti pubblici e il pareggio di bilancio.

 Se qualche volta la parola riformista viene collegata con la parola progressista, la confusione diventa maggiore perché come aveva già profeticamente affermato Pasolini, la mera crescita economica della ricchezza nazionale non corrisponde a nessun vero progresso umano in una società in cui aumentano le povertà e i disagi di ogni natura. L’indifferenza con la quale vengono utilizzate da forze politiche e leader, che apparentemente si contrastano, le parole riformismo e progressismo non hanno più alcun valore dirimente ed è stupefacente come il dibattito politico, nonostante tutte le dichiarazioni contrarie, si risolve soltanto in uno scontro di persone e dei loro nomi usati da quasi tutti (ad eccezione del Pd) come simbolo di un contenuto politico inesistente. 

Il segreto di questa politica finta è che nessuno veramente pensa che si possa modificare il quadro delle compatibilità economiche fissate dal nuovo ordine globale della finanziarizzazione della vita umana. Nessuno prova a indicare priorità diverse da quelle di bilancio statale e a mettere in dubbio le direttive sovranazionali che garantiscono come valore prioritario la valorizzazione del capitale. L’insignificanza delle parole politiche, adoperate nel dibattito pubblico, che non introducono più discriminati forti e comprensibili è la prova del carattere profondamente nichilistico del nostro lessico politico. La corruzione delle parole che perdono significato e capacità di individuazione è contestuale alla corruzione morale e civile delle nostre società. 

La rinuncia ad esercitare quel potere di nominare le cose che Dio aveva donato agli esseri umani dopo la cacciata dal paradiso ha desertificato il mondo della comunicazione interpersonale e ha bruciato ogni autentica capacità creativa delle persone e dei gruppi umani. Non ci sono più nomi propri e come si sta cercando di fare in alcune scuole sperimentali della Svezia, anche i bambini sono invitati a non usare il proprio nome né a tenere conto della differenza sessuale in modo da creare una comunicazione assolutamente impersonale, teoricamente ispirata al principio secondo cui nessuna nuova creatura deve essere condizionata dalla provenienza e dalla appartenenza a una famiglia determinata. 

La corruzione della parola è la perdita di ogni vero e proprio confine, di ogni autentica differenza, mentre noi abbiamo appreso nei secoli che solo il limite e la diversità costringono il pensiero umano a oltrepassare se stesso per aprire la “storia” a nuove rappresentazioni di se stessi e del mondo. È in questo drammatico dato che si misura la vera capacità innovativa di una forza politica e della reale consistenza dell’elaborazione intellettuale e culturale. In questi termini credo che vada riutilizzata la parola “rivoluzione” sia pure con contenuti diversi dalla pura presa del potere e della conquista del “Palazzo di Inverno”. Se è vero che la globalizzazione ha segnato l’inizio di una rivoluzione anche antropologica, l’opposizione a questo trend mortifero deve avere i caratteri di una vera e propria controrivoluzione etica, politica e sociale. Permanendo in questo stato, il destino del mondo e anche quello del nostro Paese sarà sempre più affidato ai tecnocrati e agli specialisti dei dettagli. Come ha scritto Vittorino Andreoli, continuando sulla strada che stiamo percorrendo, il mondo umano avrà solo bisogno di veterinari per la salute del corpo e di ingegneri informatici per realizzare ancora lo scambio di “segni” da un luogo all’altro. 

Spetterà alla controrivoluzione produrre nuove parole e nuovi linguaggi per contrastare la deriva nichilistica dell’indifferenziato.