Ci sono i magistrati politicizzati, c’è l’ossessione di Berlusconi che, per 20 anni, ne ha denunciato, a volte a ragion veduta, a volte per mero calcolo elettorale, la faziosità;  e poi, ci sono i magistrati che, per togliere ogni dubbio, decidono di appendere la toga al chiodo, e si mettono a fare politica per davvero. A volte, appendendola solo temporaneamente, la toga, per poi riprenderla non appena si è conclusa l’esperienza politica. In questi giorni sono balzati agli onori della cronaca tre insigni esponenti del potere giudiziario, per aver deciso di candidarsi alle elezioni. Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, correrà, con ogni probabilità, con la Lista Arancione di De Magistris; Pietro Grosso, procuratore nazionale antimafia, con il Pd; Stefano Dambruoso, magistrato antiterrorismo, con il centro. Il direttore de Gli Altri, Piero Sansonetti, spiega perché tutto ciò è altamente disdicevole.



Come giudica la discesa in campo dei magistrati?

Una pratica disdicevole. La separazione dei poteri è uno dei fattori essenziali dello Stato di diritto. In Italia, invece, sembra che lo sbocco politico sia diventato lo sviluppo massimo di una carriera giudiziaria. Si parte dall’essere un piccolo pm, per poi diventare procuratore e, infine, finire in Parlamento. E’ ancora peggio, poi, se una volta terminata l’attività politica tornano in magistratura. L’idea che, dopo esser stati esponenti della faziosità (perché questo è la politica) tornino a giudicare, a decidere chi meriti l’ergastolo, è spaventosa.



C’è modo di porre un argine al fenomeno?

Da sempre sono favorevole alla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante ma, ad oggi, non si è fatto nulla, e il semplice parlarne sembra volersi illudere di qualcosa che non accadrà mai; credo che, per lo meno, si dovrebbe sancire la separazione tra le carriere dei magistrati e dei politici.

Perché, ad oggi, la politica non ha fatto nulla?

I politici non hanno fatto niente per timore di essere inseguiti dai mandati di cattura. Nessun governo ha mai mosso un dito in tal senso. Il povero Mastella si avvicinò ad un’ipotesi di riforma e, per poco, non gli arrestavano pure i nipoti. Fecero, praticamente, una retata. Gli arrestarono gran parte della famiglia e fecero pure cadere il governo.



Perché secondo lei un magistrato sceglie di andare in Parlamento?

Guardi, credo che le motivazioni cambino da caso a caso. Esiste ancora il mito dell’entrata in Parlamento. Ci vanno industriali ricchissimi, avvocati miliardari che ci rimettono pure. Ingroia, per esempio, sono convinto che lo faccia per passione. Resta il fatto che, ai magistrati (ma, probabilmente, anche ai giornalisti: non è possibile che uno il giovedì sia il cane da guardia del potere, e il venerdì faccia parte del potere), andrebbe impedito. Si pone, infatti, tra le altre cose, un enorme problema di conflitto di interessi. Non c’è mica soltanto quello di Berlusconi, per quanto gigantesco ed evidente. Questi giudici e pm dovrebbero spiegarci se, anche nel loro caso, non si ponga la questione.

In che termini?

Beh, Grasso, per esempio, per anni ha rappresentato l’unità nazionale nella lotta alla mafia. Di punto in bianco, diventa uno dei combattenti della campagna elettorale di un Paese così diviso. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri magistrati che sono entrati o vogliono entrare in Parlamento. Per carità, nessuno mette in dubbio la loro buona fede. Ma mi pare che abbiano una scarsa idea di quali sia il loro compito.

Che convenienza hanno, invece, i partiti a candidare i magistrati? Lo fanno per i voti o per tutelarsi contro eventuali attacchi della magistratura?

Non credo che lo facciano per tutelarsi. Spesso, infatti, tra i magistrati stessi scorrono odi e inimicizie. Mi pare che, al momento, i partiti e i loro leader pesino esclusivamente ad escogitare tutti i modi possibili per raccogliere voti.