Caro direttore,
quando si diventa nonni, guardando i nipotini che girano attorno capita che ci si chieda quale sarà il loro destino, come già è accaduto con i figli ma con maggiore apprensione. Ci si chiede allora quale eredità lasceremo loro non solo in termini di beni temporali, quanto piuttosto di beni che hanno a che fare con la Verità incontrata, con il senso dell’esistenza con la consapevolezza che la risposta è nelle mani di un Altro e che non saremo noi ad essere loro compagni sulla strada del futuro.
Personalmente mi son rifatta questa domanda in questo periodo elettorale, provocata dal dibattito in corso che pare riaffezionare gli italiani alla famigerata “politica”. In tal senso mi ha colpito un articolo di Salvatore Abruzzese su Ilsussidiario.net del 9 gennaio scorso. Abruzzese, commentando il comunicato di Cl sulle elezioni, ne approvava il contenuto aggiungendo una provocazione su ciò che riteniamo come “bene non negoziabile” non limitandolo ai consueti temi (vita, matrimonio e libertà di educazione) ma estendendolo al “diritto di vita” della comunità cristiana e alla sua possibilità di espressione pubblica e civile.
Ho ripensato alla mia storia di appartenenza al movimento di Cl di lunga data, all’incontro indelebile con don Luigi Giussani, mio insegnante al Berchet, alla ricchezza e alla bellezza di una vita vissuta nell’alveo della Chiesa, Mater et Magistra, riflettendo sul fatto che se un politico chiede l’adesione a idee o a progetti il cristianesimo richiede l’adesione ad una esperienza di vita nella sua totalità.
Mi si è allora chiarito che la possibile eredità a chi verrà dopo di me sta nel rivivere ogni momento, nell’oggi, l’esperienza di una Comunione Cristiana in cui la fede non è mai un fatto privato ma un avvenimento incontrabile da tutti che si pone come un bene per tutta la società: questo è il “bene non negoziabile”.
Mi sono ricordata di alcuni fatti che hanno segnato la mia storia: ho lavorato a “La Zolla” per quindici anni, una scuola che non fu mai pensata per “i nostri figli” ma come un bene per tutti e per questo, insieme a tanti altri amici, ho partecipato a battaglie per la libertà di educazione all’interno dell’Agesc, del consiglio scolastico provinciale, del Meeting… e via dicendo.
Mi è sovvenuto il Family Day come esito di una concezione di famiglia non privata, ma come un bene per la società tutta (riusciremmo oggi a manifestare come è stato in Francia in questi giorni contro il matrimonio gay?).
Ho ricordato quanti tra noi ai tempi della legalizzazione dell’aborto si fossero battuti rischiando il proprio posto di lavoro (riusciremmo oggi ad una identica mobilitazione per il disumano trattamento delle persone in carcere?).
Queste battaglie, prima di essere “partitiche” erano “politiche” e offrivano ai partiti materia incandescente da ascoltare e a cui dare voce a livello istituzionale: questi sono momenti di testimonianza della propria fede, esempi impagabili di libertà civile e come tali costruttori di vera democrazia.
È questa testimonianza, ancor prima che una militanza, che vorrei poter lasciare ai miei nipoti e suggerire anche a chi oggi fa politica in un partito come condizione imprescindibile per fare davvero il bene di un popolo.
Un’ultima ma importante considerazione: sentii più volte don Giussani ribadire che in questo mondo “noi cristiani siamo senza patria”, riprendendo, se non erro, un pensiero di Giovanni Paolo II. Se diamo credito a questa affermazione ne consegue che nessuna formazione partitica potrà essere la patria in cui i cristiani trovino piena e soddisfacente cittadinanza. Certamente occorre vigilare che non venga negato o contraddetto ciò che l’orizzonte di fede detta, ma con la consapevolezza che ogni scelta partitica è un mezzo e non un fine assoluto.
Mi auguro dunque di affrontare l’imminente tornata elettorale non con drammatici toni da Apocalisse, ma con la serenità di chi sa dove riposano la mente e il cuore.
Marinella Senn