La frenesia elettorale si può avvertire ovunque: le file alle poste diventano comizi improvvisati, i negozi del biologico si trasformano in sezioni di partito e qualcuno giura di avere visto in metropolitana una suora mentre lanciava endorsement a un candidato e invitava a usare la ragione citando Kant. È la campagna elettorale e, per quanto molti influenti opinionisti si siano spesi per scongiurare il sopravvento del pathos da contradditorio, si sa che «gli Italiani / per lunga tradizione / son troppo appassionati / di ogni discussione», così il circo elettorale è ricomparso compatto, pronto a serrare i ranghi intorno all’italiano medio.
Nelle trame senza confini di parole e strategie che animano i soggetti del dibattito politico, la strategia più sottile è tornata a inchiodare gli elettori alle poltrone: la cultura dello spettro si è palesata, secondo una traiettoria bipartisan, in ossequio alla par condicio, così da destra e da sinistra è spuntato il vessillo dello spauracchio antagonista, della politica dei personalismi o dei silenzi impacciati. L’avversario è ridotto a caricatura di una paura, lontana o prossima che sia, alla memoria collettiva così che, mentre il paese prende posto davanti alle televisioni, dagli schermi fuoriescono i caimani, i pifferai magici e le macchine da guerra (di occhettiana memoria), le protesi e i mascalzoni. E un pensiero fugge a una delle ultime invenzioni di Giorgio Gaber: «il falso è misterioso / e assai più oscuro / se è mescolato / a un po’ di vero».
L’Italia ha sempre osservato con attenzione le performance politiche dei propri leader, facendone un tratto distintivo della sua cultura, quella che Churchill sintetizzò così: «Bizzarro popolo gli Italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di Italiani non risultano dai censimenti». Eppure il tempo che il paese sta vivendo è troppo decisivo, forse così importante – ora più che mai – per perdere l’occasione di mettere da parte i fantasmi. E anche Giuliano Ferrara, nell’editoriale di domenica scorsa firmato per Il Giornale, ha provocato i lettori sulla “cultura dello spettro”: «Anch’io ho goduto molto per la smagliante performance del Sorriso Incarnato, ma ditemi voi se su quella strada si vince, si governa, si costruisce qualcosa di diverso della replica precaria di un’avventura».
Finora i risultati della guerriglia politica hanno prodotto un antagonismo infruttuoso, incapace di realizzare una realtà partitica di compromesso solido. Per conto dei cittadini, sarebbe certo inopportuno credere che il conto attuale sia indipendente da una condiscendenza approssimativa verso le guerre di bande.
Una scelta nel merito oltre la cultura dello sberleffo, in uno Stato democratico, non è una scelta etico-morale da chiudere a chiave nei salotti della cultura radical chic o delle minoranze liberali, ma il sale della democrazia: l’intuizione del peso specifico che il tempo esprime con forza nelle molteplici realtà del paese che, dalle imprese alla scuola, dal no profit alle banche, può diventare la ricchezza imprevista della discussione politica.
Talvolta appare logico pensare che, in fondo, la scelta “giusta” sia pane per gli eletti, per chi è vicino al potere e discute di politica economica dall’alba al tramonto. La sensazione che il popolo debba accontentarsi delle briciole che cadono dal tavolo degli oligarchi è proprio uno dei nemici della democrazia, fondata al contrario – si permetta una metafora – su un operaio, un economista e la famosa casalinga di Voghera, tutti seduti attorno a un tavolo per discutere le idee che ritengono prioritarie per l’Italia, senza dare per scontato chi possa avere gli argomenti più adeguati.
Da un sentimento di parziale confusione e inadeguatezza, sbuffando alla Fantozzi nel caos della frammentazione partitica, può alimentarsi una grande impresa: trovare nel quotidiano, nel tragitto metropolitano, nello studio e nel tempo del lavoro, i centimetri che distano da una decisione chiara, che non esuli dal dettaglio, e da un giudizio che – restio a soccombere imbrigliato nelle schede – travalichi la scelta elettorale e non permanga esclusiva dei soli elettori.
Bisogna sbatterci un po’ la testa, avere la pazienza di guardare per vedere e confrontarsi senza cedere il passo agli spauracchi, riscoprendo quanto grandiosa sia la posta in gioco per riguadagnare i motivi del partecipare di un popolo e della proposta personale nella società: tutti convocati, tra palco e realtà.
@TheQuaglia