Caro direttore,
sono uno di quelli che, provenendo dal movimento di Comunione e Liberazione, si presentarono alle elezioni amministrative del 1975, nella fattispecie per il comune di Milano. Non venivo dal mondo della politica, ma da quello del lavoro, di cui mi occupavo anche all’interno del movimento, avevo avuto esperienze nel sindacato e facevo il manager in una multinazionale, cosa che continuai a fare durante e dopo la mia esperienza politica. Perché entrai in politica e partecipai a quelle elezioni, per la cronaca quelle che determinarono la prima “giunta rossa” a Milano?
Perché mi fu chiesto, da amici cui tenevo e che ritenevo autorevoli per me, autorevoli per l’aiuto che da loro ricevevo per la mia vita. Tra questi amici c’era anche Don Giussani, con il quale si era instaurata una confidenza che non esito a definire filiale e, come normalmente avviene tra padre e figlio, segnata anche da scontri, reciproci, e ribellioni, da parte mia.. Che, tuttavia, come in ogni vero rapporto, non mutarono mai la nostra affezione nel suo profondo.
La richiesta partì da loro, la decisione fu mia e dissi di sì perché convinto di quella scelta e della responsabilità che incombeva sul movimento e più in generale sulla comunità cristiana. Questa responsabilità coinvolgeva tutti, che si entrasse o no in politica. Il ’68 aveva segnato profondamente la nostra società e anche CL, come tanta parte della Chiesa, ne era rimasta sconvolta. E c’erano già evidenti i prodromi di quelli che passeranno alla storia come “gli anni di piombo”.
Cosa, quindi, mi convinse? Quello che richiama, molto opportunamente, Salvatore Abruzzese nel suo commento al comunicato di Comunione e Liberazione sulla politica, cioè: “il diritto all’esistenza della comunità cristiana, cioè del diritto ad esistere e ad operare in conseguenza dell’esperienza fondativa alla quale si partecipa. Questo è un diritto universale, in qualche modo pre-politico e quindi essenziale ad ogni democrazia reale”.
Mi apparve così chiaro che non vi sarebbe stata alcuna soluzione di continuità, se non “operativa”, con gli altri ambiti in cui vivevo da cristiano, in primo luogo il lavoro; anzi, per me questo era facilitato dal continuare a vivere in quei luoghi, non essendo un politico di professione.
Un altro aspetto, più contingente ma non per questo meno rilevante, aiutò la mia decisione: il fatto che la “corsa” sarebbe avvenuta dentro la Democrazia Cristiana. Paradossalmente, fino a quel momento non avevo mai votato quel partito, ma mi convinse l’argomento che la DC non poteva rifiutare al suo interno un’esperienza apertamente cristiana senza rinnegare la sua stessa identità. Ciò ci consentiva di tentare di essere pienamente noi stessi, di partecipare a pieno titolo, e non come tollerati, cittadini di serie B o, addirittura, trattati da utili idioti.
Un ulteriore argomento fu che era stata la stessa segreteria della Cei a invitare Comunione e Liberazione a intraprendere questo passo, proprio per la situazione difficile che si era venuta a creare e a cui ho già accennato. Per quanto mi riguardava, non si trattava di salvare la DC, ma il diritto all’esistenza della comunità cristiana, cioè di me stesso.
Una volta eletto, mi resi conto di quanto importante fosse l’attività concreta di un politico, sia pure a livello locale, di quanto questa attività finisca per assorbire totalmente e di quanto elevato sia il rischio di astrazione dalla realtà da cui si proviene. Facile la pretesa verso gli altri, quelli che ti hanno mandato lì col loro voto, che ora non sono lì al tuo fianco, inevitabile il sorgere di un sentimento di solitudine.
A questo punto, o si accetta la responsabilità personale di una decisione che si è presa liberamente, rifacendo proprio il senso più profondo di questa decisione e quindi l’appartenenza a quella comunità cristiana di cui sei parte, o prende il sopravvento l’abbandono. Abbandono che spesso significa continuare a fare politica, ma fine a se stessa, nella quale i collegamenti con la realtà da cui si proviene e con la società più in generale, non sono più ontologici, ma strumentali, anche se le intenzioni rimangono buone.
Riguardando dopo tanti anni a quella esperienza, per molti versi entusiasmante, mi sembra di capire meglio quella inusuale affermazione di Paolo VI: “La politica è la più alta forma di carità.” Se l’avessi capita meglio allora, avrei continuamente ripetuto a me e agli altri l’inno alla carità di San Paolo, e forse avrei risposto meglio alla chiamata cui avevo detto di sì.
Dario Chiesa