A un mese dal voto vale la pena soffermarsi schematicamente sui punti di forza e di debolezza dei contendenti di una campagna elettorale che, per la prima volta dopo quasi venti anni, non è più tra due schieramenti o partiti a vocazione maggioritaria, ma vede allungarsi l’ombra del quesito sulle alleanze postelettorali.
Attualmente i protagonisti si presentano tutti con il vento in poppa: Bersani è il favorito e pensa già alla struttura di governo, Berlusconi è in rimonta e potrebbe vincere o pareggiare, Monti sembra essere determinante. Le prossime settimane sono quindi destinate a stabilire l’ordine di arrivo al traguardo.
Il principale interrogativo riguarda la tenuta della coalizione di sinistra. Bersani ha scelto come “look” elettorale il paternalismo: la “forza tranquilla”, di mitterrandiana memoria, che tutela il mondo del lavoro e rassicura il mondo imprenditoriale. Però questa impostazione deve fare i conti con un trend negativo che nelle ultime settimane ha trasformato Bersani da sicuro vincitore in un vincente non però autosufficiente e che già nel pieno della campagna elettorale è costretto a parlare di alleanze, scatenando contraccolpi nel proprio elettorato: gli anti-Monti vanno verso Ingroia e gli anti-Vendola verso Monti.
Il paternalismo era convincente in uno scenario di sicura autosufficienza. L’emergere dell’imprevisto bisogno di un alleato nel pieno della campagna elettorale si traduce in isolamento ed espone a forti attacchi elettorali. A ciò si aggiungono l’infortunio del Monte dei Paschi e, terzo imprevisto, il “Piano del Lavoro” della Cgil che è un vero e proprio “contratto con gli elettori” su cui la Camusso ha chiesto una impegnativa e vincolante firma a Bersani e su cui Vendola ha messo un marchio di primogenitura. E così Bersani ha dimostrato la propria debolezza dovendo rinnegare la promessa appena fatta di non ricorrere alla patrimoniale. La “forza tranquilla” minaccia ora di, addirittura, “sbranare” gli avversari.
Da parte loro i due concorrenti diretti di Bersani, Ingroia e Monti, accentuano l’aggressività verso il Pd e Berlusconi, ma rischiano di scendere dal piedestallo con cui avevano fatto il loro ingresso in politica: l’uno come magistrato e l’altro come tecnico. Entrambi sostengono molto polemicamente tesi di parte sulla corruzione politica e la politica economica non in coerenza lineare con i ruoli appena dismessi e a cui devono la propria notorietà: l’uno di pubblico accusatore di politici e l’altro di neosenatore a vita e presidente “super partes” di un governo di unità nazionale.
Passando al centro-destra, il panorama è di un ottimismo che non manca di elementi di fragilità. Berlusconi ha ripreso in pieno il controllo del partito ed ha ricostituito la coalizione che vinse nel 2008. Dopo essere stato un anno dietro le quinte, ha riconquistato la scena e sembra persino imporre l’“agenda” elettorale, costringendo sia Bersani sia Monti a prendere le distanze da Imu (sulla prima casa), patrimoniale e redditometro.
Certo il Berlusconi 2013 non è quello del 2008: perso il cosiddetto “carisma”, ha proceduto ad una epurazione interna e ha riacciuffato la Lega in extremis promettendo la Lombardia e minacciando Veneto e Piemonte.
Abbiamo così in campo tre leader padroni del proprio campo che sembra – a tutti e tre – allargarsi con lo smottamento degli indecisi e degli astenuti, ma con molteplici crepe in seno.
Se non c’è vittoria chiara di un soggetto in entrambe le Camere, le contraddizioni interne sono destinate se non a esplodere, certamente ad emergere. Bersani non può tenere insieme Vendola e Monti, Monti dovrà a sua volta fare i conti con l’Udc che mantiene autonomia e ambizioni, e Berlusconi ha una Lega e un partito da controllare senza deterrente.
La rimonta di Berlusconi si basa sull’eliminazione di ogni alternativa moderata e quindi sulla scommessa che “alla fine”, nonostante errori e difetti, i moderati voteranno per lui. E’ un calcolo che ha i suoi fondamenti e può riuscire. Ma è ben difficile che si concretizzi in una maggioranza assoluta. E per Berlusconi due sono gli ostacoli che, allora, avrà di fronte. Il primo è il risultato in Lombardia. Esso è determinante per mantenere in vita il centro-destra. La sconfitta lombarda significherebbe infatti l’immediata dissociazione della Lega e la scomparsa della coalizione con contraccolpi anche in un Pdl epurato. Il secondo è il fatto che il ritorno in campo significa aver restituito l’arma dell’antiberlusconismo al Pd. Anche se con alle spalle una prestigiosa rimonta che rende risicata o inesistente una maggioranza di sinistra al Senato, Berlusconi ha però fornito l’ultima possibilità alla sinistra e cioè il poter dar vita ad un vasto cartello del “no” al Cavaliere che giustifica il superamento di inconciliabilità programmatiche.
Non va dimenticato che, comunque, quale che sia la coalizione che si formi per dare vita al governo, poche settimane dopo essa dovrà passare l’esame del voto segreto per l’elezione del Presidente della Repubblica. Una scadenza che tradizionalmente cristallizza o sfascia qualsiasi maggioranza di governo.