Passi la battuta su Brunetta, dall’elevata statura. Accademica. Così come la definizione del Pdl: settario. Berlusconi e i suoi, al di là delle reazioni di circostanza, avranno liquidato la questione con un’alzata di spalle. Anche Monti, adesso, è in campagna elettorale e affermazioni come quelle di ieri a Uno Mattina si mettono in conto. Deve averla preso peggio – dato che in caso di ingestibilità del Senato sarà costretto ad allearsi con il centro – Bersani, invitato dal premier a «silenziare» la parte più conservatrice del suo partito e a tagliare le ali estreme. «Io ho constatato in questo anno di esperienza di governo, e lo dico con il massimo rispetto – ha detto il premier -, che coloro che hanno impedito alle varie riforme, come del mercato del lavoro, di andare più avanti come noi avremmo voluto sono stati coloro che sono nel blocco più tradizionale della sinistra: dal punto di vista sindacale CGIL e Fiom, dal punto di vista politico Nichi Vendola di Sel e l’onorevole Stefano Fassina, responsabile economico del Pd». Abbiamo chiesto a Guido Gentili, editorialista de Il Sole 24 Ore, qual è il peso effettivo della Cgil nel Pd.



Esiste, nella sinistra, un problema di rapporti con il sindacato?

Il problema del rapporto del sindacato si pone, e non da oggi. Percorre tutta la storia recente del Paese, fino ad arrivare alla stagione del bipolarismo. Dove la Cgil ha saputo imporre dei veri e propri veti ai governi che si sono alternati.

In quali casi?



In tutti quelli in cui si tentò di riformare la disciplina su lavoro o di modificare lo status quo rispetto all’impiego pubblico. D’Alema ebbe degli scontri durissimi con Cofferati, mentre al governo Berlusconi le manifestazioni di piazza impedirono di riformare l’articolo 18. La cosa più paradossale è che il dibattito sulle riforme necessarie per modificare il mercato del lavoro si aprì proprio a sinistra, grazie a personalità quali Franco Debenedetti o Tiziano Treu; ma fu immediatamente chiuso dalla Cgil.

Anche oggi il Pd è ostaggio del sindacato?

Forse non ai livelli dell’epoca. Tuttavia, il condizionamento è ancora fortissimo. Non dimentichiamo che il senatore Ichino, rappresentante di un’area culturalmente forte, ma debole in termini di assetti di potere interni al partito, è stato costretto a traslocare nell’area montiana. Si è reso conto che le sue idee non avrebbero potuto albergare nell’attuale Pd, estremamente influenzato dalla sua ala di sinistra.



Crede che Bersani possa cogliere l’invito di Monti e liberarsene? 

Ne dubito. Il passaggio al riformismo è lungo e complicato, e non si fa nell’arco di una campagna elettorale. Politicamente l’operazione è pressoché impossibile.

Da cosa dipende la capacità di condizionamento della Cgil?

Anzitutto, nella concertazione, ritenuta per decenni un principio inviolabile e tradottasi, nel tempo, in un semplice potere di veto del sindacato che pesava di più. Monti, da questo punto di vista, ha sempre sostenuto, anche nelle vesti di editorialista del Corriere della Sera, la necessità di arginare il fenomeno. Anche perché, come spesso ha ricordato, un tale potere esula dal compito specifico delle organizzazioni sindacali – ovvero la tutela dei diritti dei lavoratori – per tradursi in azione politica vera e propria.

C’è modo di ridimensionare il potere dei sindacati senza mettere a rischio i diritti dei lavoratori?

Una strada interessante è quella intrapresa dalla Germania, dove il sistema delle relazioni industriali è fondato sulla partecipazione. Un metodo non conflittuale, ma cooperativo, dove i sindacati, all’interno delle aziende e nei consigli d’amministrazione, svolgono un ruolo di indirizzo strategico; tale sistema ha contribuito a rendere la Germania la prima economia europea e tra le prime a livello mondiale. Ovviamente, non è trasferibile tout court in Italia, così come non lo è quello americano, cui si è ispirato in parte Marchionne. Ma l’introduzione di un compromesso che tenga conto del nostro singolare modello di sviluppo e delle peculiarità delle nostra economia è, oltre  che auspicabile, possibile. Qualcosa del genere, in piccola parte, già sta avvenendo.

A cosa si riferisce?

Allo spostamento a livello territoriale della contrattazione; un fattore che contribuisce alla flessibilità, restando, tuttavia, ben distante dagli standard tedeschi e americani.

 

(Paolo Nessi)