Se avesse voluto innestare la marcia indietro ne avrebbe avuto tutto il tempo. Matteo Renzi, invece, niente. Se ha scelto di rincarare la dose, lo ha fatto con piena coscienza. Dunque dietro l’attacco al Quirinale c’è ben altro, dal momento che è difficile pensare non si renda conto come oggi il quadro politico si regga sull’asse fra Napolitano e Letta. Di fatto mettere in discussione il primo equivale ad attaccare il secondo.
La frase pronunciata nel salotto televisivo di Lucia Annunziata è tranchant: “Non è che un partito politico dice: ‘Lo ha detto il presidente della Repubblica, si fa punto e basta’. Allora che ci stanno a fare i partiti?”. Il suo significato va ben al di là della pur delicatissima questione di merito, un tema come quello dell’amnistia e dell’indulto sul quale Renzi incassa senza batter ciglio l’accusa di seguire gli impulsi più bassi dell’elettorato, cioè la paura della criminalità. Quell’anatema scagliatogli contro da Flavio Zanonato (il paragone con Grillo) lo lascia indifferente. Lui risponde definendo “diseducativo” il messaggio trasmesso dall’amnistia e dall’indulto, e tira diritto.
Secondo molti osservatori la doppia martellata in due giorni di Renzi in materia di giustizia e di sovraffollamento delle carceri costituirebbe una dichiarazione di guerra in piena regola nei confronti dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Lo pensa, ad esempio, il principale sfidante di Renzi nella corsa alla segreteria, Gianni Cuperlo, convinto che toni del genere si addicano più a una candidatura a premier che alla guida del Pd.
La fragile tregua siglata appena una settimana fa in un lungo colloquio nella sede del governo di fatto è già saltata. Quell’accordo sembrava prefigurare una coabitazione (Renzi segretario e Letta premier), in cambio della non belligeranza del capo del governo nella corsa alla segreteria, una non belligeranza benevola, che rinviava però nel tempo, forse alla primavera del 2015, il nodo della candidatura a premier per il centrosinistra.
Non si può escludere, però, che abbiano pesato molto i sondaggi che dicono di una crescente popolarità del presidente del Consiglio presso gli elettori del centrosinistra: potrebbero avere indotto Renzi a spingere sull’acceleratore, ponendo le basi per tenere sotto pressione il governo e il suo capo, alla ricerca del casus belli per arrivare a elezioni anticipate in tempi ravvicinati, a inizio 2014. Esattamente lo scenario che il duo Napolitano-Letta sta facendo ogni sforzo per allontanare.
Dunque, come era facile prevedere, la competizione interna al Pd si sta trasformando in un fattore potente di instabilità, proprio mentre l’esecutivo è chiamato a scelte delicatissime su almeno due fronti: la legge di stabilità e l’immigrazione extracomunitaria.
Per Letta si preparano giornate cruciali: mancano poche ore alla definizione di una manovra che non può essere di ordinaria amministrazione, perché deve trovare le risorse per la crescita, e il premier deve districarsi fra tante attese e tante voci, al punto di dover smentire le indiscrezioni che circolano, chiedendo di rimandare ogni giudizio al testo definitivo.
Non meno facile trovare la quadratura del cerchio in materia di misure per fronteggiare l’ondata di sbarchi dal Nord Africa. Letta ha mostrato realismo, nel momento in cui sullo scomodo palco di Mestre della “Repubblica delle idee” ha spiegato che la sua personale avversione alla legge Bossi-Fini si scontra con la totale ostilità del Pdl a rimettere in discussione una norma agitata oramai come una bandiera, al di là del suo valore intrinseco. Su questo terreno l’unico aiuto che il governo può sperare è quello di una Europa sinora troppo assente, o tremebonda.
Il partito di Berlusconi, del resto, su un tema così sensibile agli occhi del proprio elettorato non può permettersi cedimenti, scosso com’è dai propri rivolgimenti interni, paralleli a quelli del Pd e che concorrono a rendere instabile il quadro politico complessivo.
La lotta fra falchi e colombe per delineare il dopo-Berlusconi (o meglio il dopo la sua decadenza da senatore) ha raggiunto un tale livello di scontro da non poter essere più tollerata dallo stesso Cavaliere, che tra tanti pensieri confusi sul futuro sembra avere un solo punto fermo: un Pdl spaccato, un Pdl scisso in due o più tronconi, non gli sarebbe di nessuna utilità. Da qui il brusco richiamo ad abbassare i toni, arrivato da Berlusconi prima che la polemica passasse il segno del tollerabile.
I due travagli interni, quello del Pd e quello del Pdl, sono però paralleli e contribuiscono a rendere precario lo scenario delle prossime settimane. Fatta la legge di stabilità, di improcrastinabile rimarrà solamente la riforma elettorale. Se su quel terreno si dovesse registrare una convergenza da qui a fine anno, lo scenario delle elezioni a marzo riprenderebbe quota. Con buona pace dell’asse Napolitano-Letta.