Forse nessuno si accorge che, in questo dibattito concitato sull’amnistia e l’indulto, si rasenta il grottesco per usare un eufemismo. Dopo il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sono intervenuti nell’ordine i “nuovisti” della politica italiana come l’ex comico Beppe Grillo e il rampante sindaco di Firenze Matteo Renzi. Decisamente contrari a simili provvedimenti. Poi, nei giorni scorsi, c’è stato un gran vociare non tanto sull’utilità dell’amnistia e dell’indulto, ma sulla domanda cardine del quadro politico italiano: questi provvedimenti possono salvare anche Silvio Berlusconi dalla condanna che gli è stata inflitta? Il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, si è cimentata in una previsione opinabile: di solito questi provvedimenti non riguardano reati finanziari. Un concetto simile lo ha ripetuto un esponente del centrodestra, Giancarlo Galan. Ma siccome tutta la settimana si è concentrata sul “salvataggio o meno di Berlusconi”, ieri è intervenuto anche il ministro per le Riforme istituzionali, Gaetano Quagliariello, che ha specificato: “Se amnistia e indulto saranno legge dovranno essere applicate e a tutti i cittadini, Silvio Berlusconi compreso.
In fondo, un’ovvietà, che è riuscita in tutti i casi a scatenare un putiferio che si potrebbe tradurre meglio nel politichese italiano in “cagnara”. Diventa complicato, in una simile situazione, fare una domanda precisa a un costituzionalista di valore come il professor Alessandro Mangia dell’Università Cattolica. Alla fine dove sta il problema reale? Spiega Mangia: “Giudico positivamente l’intervento del presidente della Repubblica, ma occorre precisare che provvedimenti come l’amnistia e l’indulto hanno un valore se al contempo si affronta complessivamente la riforma del sistema giustizia in Italia, sia per quanto riguarda il processo civile che quello penale”.
Da soli, questi due provvedimenti non risolverebbero la situazione delle carceri italiane?
In questo caso basta fare i conti, guardare i dati che portano poi alla condanna dell’Italia da parte degli organismi internazionali. Abbiamo carceri che possono ospitare 40mila detenuti, attualmente ce ne sono quasi 67mila; più del 50 per cento oltre la soglia programmata. Ed è bene precisare che il 40 per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio. Come si fa a risolvere un simile problema con misure così semplici? L’esempio l’abbiamo avuto con l’indulto del 2006. Dopo tre anni la situazione era ritornata come prima, con problemi che si aggravano giorno dopo giorno.
In che senso, professor Mangia?
Bisognerà pure guardarla bene la realtà, anche quella che è all’interno delle carceri e che probabilmente interessa poco l’opinione pubblica. Basta parlare con qualsiasi operatore che vive all’interno del pianeta carcerario e si sentirà descrivere un territorio carico di tensione, soprattutto dopo le aspettative generate negli ultimi giorni dal gran parlare che si è fatto di amnistia e indulto. Non è un mistero per nessuno che nelle infermerie dei carceri si distribuiscano tranquillanti, metadone e psicofarmaci come se piovesse.
In una simile situazione, tra carcerazione preventiva e sovraffollamento, come è immaginabile che nel contesto internazionale non arrivino pesanti condanne all’Italia? E infatti abbiamo una collezione invidiabile di condanne dalla Corte Europea sulla durata della carcerazione preventiva. Insomma, una situazione del genere non può essere affrontata sulla base di provvedimenti che, per loro natura, dovrebbero essere una tantum. Certo, c’è l’amnistia. C’è l’indulto. Si possono stipulare convenzioni internazionali per far scontare la pena ai detenuti stranieri nei loro paesi d’origine. E magari risparmieremmo pure qualcosa. Ma il problema reale che sta dietro a tutti questi discorsi è la necessità di arrivare ad una riforma complessiva del sistema giustizia.
C’è qualcuno che suggerisce la costruzione di nuovi carceri.
Per carità, si può fare di tutto e credere che le cose si risolvano riaprendo l’Asinara, come ho sentito negli ultimi giorni. Però così si continuano ad aggirare i problemi, giocando sulla questione Berlusconi sì/Berlusconi no. E i problemi non toccano soltanto le carceri e il processo penale. Ma scusi, che cosa può pensare un’impresa straniera che vuole fare affari in Italia quando, prima di investire, si informa sul paese dove vuole mettere i suoi soldi e si sente dire che in quel paese i tempi del processo civile vanno dai 5 ai 7 anni? Più l’appello o la Cassazione. Oppure quando gli si spiega come funziona la giustizia tributaria? Ammesso che glielo si riesca a spiegare. Si parla tanto di amministrazioni pubbliche inefficienti e da riformare. Ma il problema del processo in Italia è diventato fondamentale, sia nella dimensione civile che penale. E riguarda il futuro del nostro Paese. Il punto è avere la forza, il coraggio, la determinazione di rivedere nell’ordine i tempi del processo civile e penale e le modalità di lavoro degli uffici giudiziari.
Un esempio?
Il Tribunale di Torino è riuscito ad eliminare in modo sostanziale il proprio arretrato riorganizzando lo svolgimento del processo civile. Basterebbe guardare a quell’esempio. Sul versante penale, poi, negli ultimi 10-15 anni si è assistito ad una moltiplicazione delle fattispecie di reato al di fuori del codice. Reati di puro pericolo e reati costruiti in base ad esigenze di prevenzione generale sono all’ordine del giorno. E intasano le Corti. Andare avanti in questo modo non è più possibile.
Riassumendo, e lasciando da parte le polemiche politiche su come “salvare o meno Berlusconi”, i provvedimenti di cui si sta parlando ora possono avere un senso?
Solo se sono inseriti in un contesto generale di riforma del sistema giudiziario. Altrimenti, fatta l’amnistia, tra qualche anno saremo daccapo con qualche nuova emergenza carceri. E con una giustizia civile che continua a favorire chi non paga. È questo è il problema reale di cui lei mi chiedeva all’inizio.
(Gianluigi Da Rold)