Quando si tratta di riformare, sono davvero numerosi i settori in cui i governi, a prescindere dal colore, si incagliano, per poi non riuscire a procedere neanche di un millimetro. La giustizia, tuttavia, ha sempre rappresentato uno scoglio più insormontabile degli altri. Nonostante più o meno tutti, con toni magari dissimili e disegni di legge agli antipodi, abbiano avanzato proposte di riforma. E nonostante anche il capo dello Stato, ormai da tempo, stia invitando le forze politiche a rinnovare l’attuale disciplina. Da ultimo, lo ha fatto nel messaggio inviato alle Camere per denunciare il sovraffollamento carcerario. Il Tribunale di Palermo, nel frattempo, ha accettato la richiesta della Procura di ascoltarlo come testimone nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Possibile che le due circostanze siano collegate? Lo abbiamo chiesto all’ex presidente della Camera, Luciano Violante.
Crede che sia necessario riformare la giustizia italiana?
Il groviglio va sciolto e ciascuna componente va separata dalle altre. E’ necessario riformare il codice penale, il codice civile, il codice di procedura penale e il codice di procedura civile; altresì, occorre riformare l’ordinamento penitenziario e quello giudiziario. I temi, sono molti, complessi ed esigono una visione strategica.
Si può imputare a parte della magistratura la responsabilità di non aver realizzato tali riforme?
Il freno è derivato da un insieme di fattori. Settori del centrodestra hanno dimostrato un atteggiamento molto aggressivo nei confronti della magistratura ordinaria, tesi più a schiacciare che a riformare. Il centrosinistra non poteva certo avallare questa impostazione e la magistratura ha reagito con sue proposte e con una forte chiusura su qualunque altro tema. Vi è stato, dunque, un condizionamento reciproco. Tuttavia, con un indirizzo politico sintetizzato in affermazioni quali “i giudici sono peggio della mafia”, o “sono il cancro della democrazia”, trovare un posizione conciliante era impossibile.
Allo stato attuale, esiste una parte della magistratura che non vuole le riforme a prescindere dall’atteggiamento del governo?
Non ci sono le riforme in astratto. Ci sono specifici, concreti interventi di riforma, l’uno distinto dall’altro. Per ciascun settore da riformare, esistono proposte e orientamenti diversi. E’ la politica che deve scegliere. La magistratura e l’avvocatura dovranno esprimere i loro pareri. Ma la responsabilità della scelta è della politica, non della magistratura né dell’avvocatura.
Quindi, secondo lei, il problema di una quota di magistratura conservatrice non si pone?
Non è che non si ponga: il problema è che, da anni, il tema non è stato mai affrontato con rigore e serietà, ma con aggressività e spirito distruttivo. Esiste certamente una indisponibilità della magistratura a riforme proposte sotto il segno dell’aggressione. Qualunque organismo professionale, nel momento in cui si sente sotto attacco da parte del mondo politico, reagisce chiudendosi.
Esiste un partito dei giudici che vede in Napolitano (e nella sue molteplici richieste di riformare la giustizia) un avversario?
Il presidente Napolitano, tra le autorità dello Stato, è colui che si è espresso maggiormente in difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura e in favore di vere riforme.
In un tale contesto, che significato assume il via libera da parte del Tribunale di Palermo alla richiesta dei pm di chiamare a deporre Napolitano?
In realtà, nel nostro ordinamento, il tribunale non conosce gli atti. Deve, semplicemente, valutare le richieste della Procura della Repubblica, in relazione al capo di imputazione e all’oggetto dell’interrogatorio. In questa condizione, non credo che potesse fare altro che ammettere la richiesta. L’articolo 205 del codice di procedura penale prevede esplicitamente l’ipotesi di interrogatorio del presidente della Repubblica. Inoltre, nell’ordinanza sono previste giustamente talmente tante cautele che mi chiedo a cosa possa servire la testimonianza.
Che cautele?
Non solo la deposizione deve limitarsi ad una parte della lettera di Loris D’Ambrosio, ma nell’ordinanza è fatto riferimento alla decisione della Corte costituzionale che, il 4 dicembre 2012, affermò che molte tra le attività del presidente della Repubblica, anche nell’ambito privato, devono restare riservate e non possono essere oggetto di indagini penali. Credo, dunque, che si tratti di una inutile prova di forza della Procura che, nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato- mafia, ha perso il primo tempo, con l’assoluzione del generale Mori.
(Paolo Nessi)