Chi tocca la giustizia muore? Indubbiamente, per molti aspetti la riforma è un tabù. D’altra parte, qualunque corporazione al mondo, per sua stessa natura, è ostile ai cambiamenti. Se, poi, la corporazione è particolarmente potente, e la magistratura lo è, i cambiamenti diventano pressoché impossibili. Sarà per questo che il Tribunale di Palermo ha accolto la richiesta dei Pm che, nell’ambito del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, vorrebbero interrogare, come testimone, il presidente Napolitano in merito alla lettera del consigliere giuridico Loris D’Ambrosio (quest’ultimo espresse il timore di «essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi»)? Si dà il caso, infatti, che pochi giorni prima il capo dello Stato, nel messaggio inviato alle Camere, oltre a suggerire un provvedimento di amnistia e indulto, avesse chiesto, come in molte altre occasioni, di prendere in considerazione la riforma della giustizia. Abbiamo parlato di tutto ciò con Antonio Baldassarre, ex presidente della Corte costituzionale.



E’ un caso quanto accaduto?

Francamente, non penso che i fatti siano collegati. Quel che è certo, è che il problema posto da Napolitano esista sul serio. Anche se si potrebbe obiettare che è stato sollevato in un momento sbagliato, dato che la decadenza senatoriale di Berlusconi è questione tuttora in ballo. Resta il fatto, quindi, che la giustizia vada riformata.



Ci spieghi.

Guardi, le performance della giustizia italiana sono giudicate negativamente sia dalle numerose sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che dalle statistiche internazionali. L’ultima, realizzata in ambito Onu, ci colloca in posizioni arretrate su tutti i fronti. Per quanto riguarda, per esempio, la percezione dell’imparzialità dei giudizi, siamo al 42esimo posto.

A riformare la giustizia, ci provò il 16 gennaio del 2008, l’allora Guardasigilli Clemente Mastella. Quel giorno, avrebbe dovuto presentare la riforma della Giustizia alle Camere. La mattina stessa, la procura di Santa Maria Capua Vetere gli arrestò la moglie con l’accusa di tentata concussione.



Credo che si trattò, prevalentemente, di un atto imputabile a dei singoli. E’ evidente che arrestare la moglie dell’allora ministro della Giustizia avrebbe dato alla Procura un rilievo mediatico e una pubblicità enorme. Cosa da cui i pm, invece, dovrebbero rifuggire. Detto questo, è evidente che nella magistratura ci siano delle forti resistenze ai cambiamenti.

Quali?

Buona parte dei magistrati è abituata a contemplare il mondo processuale italiano come un universo a sé. Non conoscendone altri, tanti pm e giudici considerano il processo che hanno studiato all’università e applicato nelle loro professioni come il non plus ultra. Questo vale per la giustizia penale, civile e amministrativa.

Si tratta di magistrati poco preparati?

Non dico  questo, al contrario: si tratta di persone con un’elevata preparazione giuridica. Ma è l’unica che hanno mai avuto. Non sanno, per esempio, che ci sono Paesi in cui la giustizia è amministrata in maniera molto più semplice ed efficace. Eppure, non sempre è stato così. Si tratta di una tendenza piuttosto recente.

 

Cosa intende?

 Negli anni 60-70, specialmente tra i fondatori di Magistratura democratica e tra i giudici che si muovevano in quell’ambiente, erano state espresse molte critiche su come era organizzato il processo in Italia. Nel 1989, poi, si passò da un sistema processuale estremamente sbilanciato in favore dell’accusa, ove il giudice coincideva con l’accusatore (processo inquisitorio), ad un sistema in cui accusa e difesa si trovano, sostanzialmente, su un piano di parità (accusatorio-misto). Tuttavia, l’operazione fu fatta molto male.

Perché dice questo?

I giovani penalisti chiamati nella commissione dall’allora ministro Vassalli tentarono di copiare il modello anglosassone. Ma lo copiarono male. I più acuti tra costoro, criticarono la mediazione cui si giunse. Lo stesso Vassalli, che fu mio collega alla Corte costituzionale, disconobbe in seguito la paternità del codice. Non si può escludere, inoltre, che tra i fattori che frenano l’eventuale riforma della giustizia vi sia la politicizzazione di certa parte della magistratura.

 

Che parte?

Per  esperienza, posso dire che i magistrati politicizzati si collocano, per lo più, all’interno delle Procure. La percentuale è estremamente più ridotta all’interno degli organi giudicanti. In quest’ultimi, c’è un alto tasso di persone che tengono all’imparzialità del proprio giudizio.

 

Ci parli delle procure.

Beh, è evidente a tutti, per esempio, che si è creato un circuito inaccettabile tra Procure e mass media. I primi a venire a conoscenza dei dettagli coperti da segreto istruttorio relativi ad indagini sui personaggi eccellenti sono i giornali. Basti pensare alla recente notizia dell’indagine che avrebbe coinvolto alcuni esponenti della commissione dei 35 saggi. Insomma, si tratta di pm che, indubbiamente, fanno male alla propria categoria.

 

(Paolo Nessi)