La figura di Giorgio Napolitano rischia di essere quella di un personaggio al centro di uno dei tanti passaggi del dramma del riformismo italiano. Molte cose sono cambiate sotto il cielo della politica italiana, ma un retaggio indissolubile è rimasto, sotto altre forme, nell’anima inquieta e confusa della sinistra italiana, quella vecchia, quella nuova e quella che si crede di sinistra e magari pratica una politica di destra avventurosa sotto la bandiera del moralismo.



Riformista è stato sempre un termine usato con disprezzo nella sinistra italiana. Fu il destino di Filippo Turati e di Claudio Treves, additati come socialtraditori. È stato il destino di Giuseppe Saragat prima, nel 1947, e di Pietro Nenni poi, dopo il congresso del Psi a Venezia nel 1956. E uguale sorte ha avuto l’ala che faceva riferimento a Giorgio Amendola nel vecchio Pci, quando il figlio del grande liberaldemocratico antifascista Giovanni lanciò nell’ottobre del 1964 la proposta di un partito unico della sinistra. Ancora nel 1981, al congresso del Psi di Palermo, creò quasi scandalo la creazione di una corrente “riformista” che faceva riferimento al segretario Bettino Craxi. In quell’occasione, contro il termine “riformista” si pronunciò anche un personaggio come Riccardo Lombardi, che veniva dal Partito d’Azione.



La stagnante storia italiana della sinistra non ha mai tenuto conto della svolta di Bad Godesberg (mettere Marx in soffitta) operata da uomini della Spd tedesca come Willy Brandt e Helmut Schimdt nel 1957 e neppure guardava in casa propria, ai ripensamenti per esempio del 1969 di personaggi come Camilla Ravera e Umberto Terracini i quali riconobbero che, nel discorso al congresso di Livorno del 1921, Turati aveva ragione.

Giorgio Napolitano è stato sempre, sin dalla sua iscrizione al vecchio Pci, vicino alle posizioni di Giorgio Amendola, pur con la sua individualità, la sua sensibilità e anche i suoi silenzi e le sue assenze in alcuni passaggi politici delicati. Sostanzialmente un riformista che ha “pagato dazio” nell’ultima svolta a sinistra del Pci berlingueriano e anche nella “svolta”, sempre anticapitalista, del partito guidato da Achille Occhetto.



E da riformista Giorgio Napolitano s è comportato quando è stato “ripescato” per un posto al Quirinale. Da riformista, per venire ai nostri giorni, Giorgio Napolitano si è comportato in quest’anno travagliato nella scelta del governo delle larghe intese, in nome di un realismo necessario per affrontare la grande crisi economica e politica, garantendo un minimo di stabilità a un Paese sostanzialmente spaccato in tre blocchi elettorali.

La rielezione al Quirinale accettata da Napolitano è stata poi una delle migliori interpretazioni del vecchio riformismo italiano.

Ma è proprio per questa ragione che Giorgio Napolitano è entrato nel mirino come bersaglio da colpire da parte di un composito e variegato schieramento della sinistra-destra giustizialista italiana. Non è un caso che un vecchio ortodosso della sinistra italiana, come il giornalista Giulietto Chiesa, giudichi da mesi Napolitano come “il peggior Presidente della Repubblica che abbia avuto l’Italia”.

Vista la portata degli attacchi contro Napolitano, pare quasi che in certi momenti la “questione Berlusconi”, vecchia ossessione italiana, sia quasi un grande pretesto per arrivare al vero nocciolo della questione, cioè il ruolo politico e istituzionale del presidente della Repubblica.

Proviamo a mettere in ordine alcuni fatti accaduti nell’arco di un anno e mezzo. Alla vigilia dell’estate del 2012 è la procura di Palermo, con i suoi magistrati militanti e con i suoi procuratori aspiranti leader politici, che coinvolgono Napolitano nella trattativa Stato-mafia, ascoltano le telefonate del Quirinale con l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, vogliono che il presidente vada a deporre in aula. Dovrà intervenire la Consulta, dovrà morire di crepacuore il consigliere Loris D’Ambrosio. Ma la sostanza è che l’avviso a Napolitano è arrivato nel momento giusto: il presidente non si azzardi, come da tempo dice e vuole, a chiedere una riforma della giustizia italiana.

Tutto il variegato “partito dei giudici” si muove con critiche pesanti nei confronti di Napolitano. In fondo, si spera solo che il presidente vada presto in “pensione” e non venga assolutamente rieletto.

Ma il cosiddetto “wishful thinking” è la maledetta formula inglese che provoca sempre delusioni. Il risultato delle politiche di febbraio 2013 infila l’Italia in un impasse inquietante, con i grillini che esplodono sul piano elettorale, con il Pd di Pierluigi Bersani che resta in panne ed è costretto per due mesi a fare la corte all’ex comico genovese, con Mario Monti che fa flop e con Berlusconi che resta ancora in campo. Le speranze di una svolta radical-giustizialista non riesce a realizzarsi. La rielezione di Napolitano arriva dopo un cammino tormentato e tortuoso, con “bruciature” di personaggi pesanti. E nello stresso tempo il presidente, che accetta per dovere di servizio e quasi controvoglia, mette a punto due passaggi cruciali: la formazione di una commissione di saggi per le riforme e soprattutto il varo dell’alleanza delle “larghe intese”, che fa saltare i piani di molti protagonisti o aspiranti tali della politica italiana.

C’è sempre chi spera che il nuovo governo di Enrico Letta abbia breve durata, fragilità e fiato corto. Sembra che tutti sperino in un’estate veloce e che l’autunno faccia maturare il “frutto da cogliere”, cioè la caduta dell’esecutivo e il ritorno alle urne.

È in questo quadro che Bersani diventa sempre più cupo e defilato; che Matteo Renzi si trasforma in uno sgomitante comprimario che sbanda a destra e a sinistra, a seconda delle convenienze elettorali interne ed esterne al Pd; che Beppe Grillo alza i toni delle sue intemerate contro il Quirinale; che ogni tanto il “partito giudiziario” rispolvera coinvolgimenti di Napolitano nei processi sulla trattativa Stato-mafia.

Quando esplode il caso Berlusconi, dopo la sentenza della Cassazione, l’appuntamento d’autunno del Governo sembra già apparecchiato e le speranze si moltiplicano, così come gli attacchi a Napolitano. Si sprecano le questioni su una sorta di “presidenzialismo anomalo e di fatto”, sul ruolo di “non garante della Costituzione”. Per affondare il colpo contro il Governo Letta, ma soprattutto contro Napolitano, si arriva alla manifestazione di piazza in “difesa della Costituzione”, dove scandiscono una difesa anacronistica (come “guardiani della rivoluzione” khomeinista) uomini come il leader della Fiom, Maurizio Landini, e i leader dell’ortodossia immobilistica come Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. Questa volta il piano sembra riuscire, perché il caso Berlusconi spacca persino il Pdl, il Governo è alle prese con manovre e manovrine decisive e macchinose, lo stesso Napolitano deve inviare alle Camere un messaggio sullo stato delle carceri italiane, che rappresenta una vergogna internazionale, e che va in realtà a colpire il sistema-giustizia dell’Italia, alimentando così ulteriori polemiche roventi.

Ma anche in questa occasione Napolitano riesce a districarsi in un campo veramente minato e la delusione dei tanti avversari si moltiplica e si attesta su dichiarazioni d’accusa sempre più forti. Il braccio di ferro continua e il gioco si fa ancora più duro.

Ora il Governo sembra avere più respiro e lo stato di necessità sembra averlo trasformato in un esecutivo di più lunga durata rispetto alla prassi italiana. Ma le insidie e i colpi contro il Governo e contro il Quirinale sono sempre dietro l’angolo e il terreno resta sempre minato. Berlusconi è ormai solo una comparsa sullo scenario italiano. I veri problemi per Napolitano vengono da una debolezza ancora marcata del Governo, che gli rimbalza inevitabilmente addosso, e da una situazione internazionale che è sempre ingarbugliata. Fino ad arrivare all’ultimo colpo di teatro, quando la Corte d’assise di Palermo, che celebra il processo sulla trattativa Stato-mafia, ammette la richiesta della Procura di citare Napolitano a deporre.

Germania e Stati Uniti sono sempre alle prese con i loro problemi e interpretano due linee di politica economica differente. Barack Obama pensa a un’uscita dalla grande crisi finanziaria con inflazione e svalutazione, Angela Merkel controbatte con il suo rigore, che premia soprattutto la Germania. Scelte contrapposte anche in vista di un accordo sul mercato transatlantico.

L’Italia può puntare su un accordo flessibile tra i due grandi protagonisti e sperare che le leggi della politica internazionale non portino, tra segreterie di Stato e poteri finanziari internazionali, allo sgretolamento e alla marginalizzazione del Paese. Una partita molto difficile.