Riuscirà il governo Letta a vivere con Matteo Renzi segretario del Pd e Silvio Berlusconi fuori dal Senato?

Dagli Stati Uniti alla Germania la strada delle “larghe intese” viene praticata in quanto in quelle democrazie non si ricorre alle elezioni anticipate. La “grande coalizione” o l’accordo di “unità nazionale” è anche una scelta considerata ragionevole ed obbligata per fronteggiare le emergenze cercando di sommare capacità di decisione (ed anche di innovazione) e consenso sociale. Ma questi “compromessi storici” sono accettati perché in quei sistemi di maggioritario a tradizione bipolare i due partiti contraenti hanno una forte identità in termini di valori, ideali, insediamenti sociali e radici territoriali.



In Italia abbiamo in questo momento un bipolarismo liquido, non stabilizzato, con i due principali partiti in fase di transizione e persino di rifondazione. Da un lato c’è un leader che si appresta a prendere in mano le redini del Pd puntando a Palazzo Chigi nel segno della “rottamazione” e dall’altro il fondatore del Pdl che rifonda Forza Italia ritornando allo “spirito del ’94”. In entrambi i casi emergono una volontà di azzeramento e un giudizio di insoddisfazione quasi fallimentare sul ventennio della seconda Repubblica: Renzi mette sotto accusa i suoi predecessori, i suoi predecessori mettono sotto accusa Berlusconi e, a sua volta, Berlusconi mette sotto accusa i suoi alleati-traditori (Bossi per il ’94, Casini per il 2001 e Fini per il 2008). Manca però una seria riflessione critica sulle sconfitte del passato così come manca ancora una organica analisi della crisi economico-sociale di oggi.



L’ipotesi di rottura e di superamento del governo di compromesso Letta-Alfano sarebbe sicuramente positiva se si prospettasse agli elettori una scelta chiara su due piattaforme alternative per uscire dalla crisi: una crisi che non ha più l’alibi di essere “mondiale” in quanto il perdurante stato di recessione è ormai un dato specifico dell’Italia. 

Ma i cosiddetti “falchi”, che in un campo e nell’altro sollecitano la rottura, hanno un programma chiaro e realistico? Allo stato attuale dobbiamo creder loro solo “sulla parola”. 

Il Pdl-Forza Italia assicura crescita e abbassamento della pressione fiscale, ma, con il leader che è sotto la spada di Damocle delle sentenze, non sa nemmeno con quale leadership e schieramento andrebbe alle elezioni. Anzi: non sa nemmeno se rimarrà unito dato che quando ha tentato di aprire la crisi si è trovato di fronte ad una scissione.



Il sindaco di Firenze dopo aver fatto le “primarie” contro Bersani posizionato sulla destra in seno al Pd ora sta facendo le “primarie” posizionato sulla sinistra. Scelta necessaria in quanto il Pd – dato il frantumarsi della cosiddetta “ditta” (gli ex Pci) – è scalabile solo da sinistra, ma al prezzo di non parlare di provvedimenti impopolari. Siamo ben lontani dalla sinistra in cui nel Pci, di fronte alla crisi economica degli anni 70, si esortava a “sacrifici senza contropartite”. 

Siamo ben lontani dalla sinistra in cui nel Pci, di fronte alla crisi economica degli anni 70, si esortava a “sacrifici senza contropartite”. Il risultato è che Renzi intervistato nei giorni scorsi sul Corriere della Sera da Aldo Cazzullo, continua a tergiversare circa i contenuti di una politica economica: “Quando toccherà a noi parleremo chiaro”. E cioè, nel corso delle “primarie” del Pd, si dà per scontato che si vada in giro promettendo “l’asino che vola”. Anche Veltroni, che pur lo appoggia, vede in Renzi scarsa “profondità”. 

D’altra parte la necessità di mantenere un quadro di “larghe intese” deriva dalla priorità di provvedimenti urgenti come la modifica della legge elettorale. Aver introdotto il maggioritario senza modificare la Costituzione ha determinato un’alterazione di tutta l’architettura delle figure di garanzia che erano previste e definite nel 1947 dall’Assemblea Costituente in un quadro di sistema proporzionale. Ad esempio la maggioranza qualificata dei 2/3 della Camera secondo i Costituenti è evidentemente su base proporzionale mentre oggi può rispecchiare la volontà di una minoranza dell’elettorato. Con il “porcellum” oggi è possibile, sulla base di un consenso nettamente minoritario, imporre presidenza della Repubblica e maggioranza della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Purtroppo la Corte costituzionale ha lasciato fare e solo recentemente – dopo una vera e propria “campagna” in cui si è esposto in prima persona il presidente Giorgio Napolitano – i giudici, da anni inerti, si sono degnati di svegliarsi e di ammettere che forse tale situazione non è precisamente nello spirito e nella lettera della Carta.

Le “larghe intese” non sono certo una soluzione ottimale, ma né “il rottamatore” del Pd né “lo spirito del ’94” del Pdl riescono ancora a prospettare schieramenti, leadership e programmi con sufficiente spina dorsale per affrontare da soli le difficoltà in cui siamo.