Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, aveva definito “porcate” l’operato delle Camere circa l’approvazione della Legge di Stabilità fortemente voluta dall’esecutivo Letta. Oggi – sollecitate in realtà da Antonio Azzolini, presidente della Commissione bilancio del Senato – sono arrivate le sue scuse a tutto il Parlamento: “credo che le mie dichiarazioni in un dibattito pubblico siano state misinterpretate dai media e me ne scuso se questo possa essere stato interpretato come una non considerazione della sacralità del Parlamento”, sottolineando comunque la sua preoccupazione per le misure previste dalla manovra. E infatti dichiara: “Le mie recenti considerazioni nascono dalla preoccupazione di vedere superata l’apprezzabile modalità d’esame del documento di programmazione della spesa pubblica, riportandoci indietro, agli anni delle politiche che piegavano, in modo radicale, la programmazione del bilancio alle necessità degli infiniti campanili del nostro Paese. In un momento come l’attuale non possiamo, per nessun motivo, ipotizzare un simile spettro. Mi auguro di cuore di essere stato troppo pessimista”.
Il numero uno della Mapei ha affermato di avallare l’ossatura di base della finanziaria, ma per renderla realmente efficace invoca con vigore l’aumento delle risorse a favore del taglio del cuneo fiscale”. Squinzi sostiene che sia una mossa necessaria non tanto “per una finalità legata a meri interessi d’impresa” quanto per permettere al Paese di invertire il trend recessivo, imboccando così la giusta strada della crescita. Ma questo accadrà solo “se avremo il coraggio di scommettere tutti insieme, ognuno per la sua parte, sulla ripresa”. Secondo Confindustria ciò è possibile solo con un “sensibile abbattimento della pressione fiscale per i lavoratori e per le imprese”.
Insomma, Squinzi chiede (e subito) modifiche profonde al testo, ricordando in conclusione come non ci sia ulteriore tempo da perdere: “Personalmente da imprenditore credo che abbiamo già superato abbondantemente la soglia di resistenza; lo dimostra la quantità di imprese che chiudono l’attività o che abbandonano l’Italia”.