Si sa, a tirar la corda, prima o poi si spezza. Se poi a tirarla ci si mette da entrambe i capi, la rottura arriverà molto rapidamente. È proprio quel che stanno facendo Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, tirar la corda della politica sino a spezzarla, anzi a strozzare il governo delle larghe intese.

Da una parte c’è il Cavaliere, che è uscito da tre mesi di immobilismo, provocando un’accelerazione che ha rinchiuso in un angolo quell’ala governativa del Pdl che lo aveva costretto a votare la fiducia il 2 ottobre. Chi aveva vinto la battaglia di tre settimane fa è oggi disorientato, un fronte nel quale si aprono vistose crepe. Berlusconi, però, pare curarsene ben poco. C’è chi giura di averlo sentito mormorare in queste ore che i traditori si sono messi già fuori da soli. Del resto, a lui l’unica cosa che importa è tornare ad avere a disposizione un partito compatto da utilizzare nella battaglia finale, quella sulla sua decadenza dal Senato.



La questione del governo, che Quagliariello si ostina a ricordargli, diventa del tutto secondaria. Il sostegno a Letta non mancherà sino al D-day in Senato, sempre che non vi siano colpi di mano stile elezione della Bindi, soprattutto in materia fiscale. Poi, però, tutto è destinato a cambiare, perché agli occhi del Cavaliere esiste un legame strettissimo fra decadenza e continuità dell’azione dell’esecutivo.



Quel momento arriverà ben prima del consiglio nazionale dell’8 dicembre, quindi la conta in corso fra gli ottocento componenti del parlamentino azzurro potrebbe rivelarsi inutile, perché a quella data tutte le scelte saranno ormai compiute. Il più incerto appare proprio Angelino Alfano. Rincuorato dalle parole di Berlusconi che gli confermava non solo la stima, ma anche il ruolo di successore designato, il vicepremier tentenna. Sotto il naso Berlusconi gli ha sventolato sondaggi che attribuirebbero agli alfaniani un peso elettorale del 3 o 4 per cento, tale da essere a rischio quorum alle elezioni europee di maggio. 



Nonostante le pressioni di Enrico Letta per dar vita a gruppi autonomi e il sostegno di una pattuglia consistente di parlamentari, Alfano si sta rendendo conto che il ritorno di Berlusconi gli restringe lo spazio di manovra. E salvare il governo a novembre potrebbe essere un sacrificio inutile, visto che ne potrebbe prolungare la vita per una manciata di mesi appena. Poi il rischio concreto sarebbe quello di fare la fine di Gianfranco Fini.

La sua idea di un centrodestra stile Casa delle libertà del 2001 non ha fatto breccia nel cuore di Berlusconi, tantomeno il suo corollario, cioè la separazione consensuale fra Pdl e Forza Italia. Un’idea quest’ultima che suscita il sarcasmo persino di un pontiere come Gasparri, che ricorda come il partito, comunque si chiami, deve essere unico per avere un peso.

Per Alfano, dunque, la decisione più difficile della sua carriera politica, che potrebbe essere anche quella di non rompere e chinare la testa. Per adesso sta lavorando per smorzare i toni e cercare una mediazione in grado di accontentare tutti.

Al lato opposto della fune sempre più vigorosi sono gli strattoni assestati dal sindaco di Firenze. L’avvertimento lanciato sulla legge elettorale parla da solo. Il suo ostinato schierarsi per il bipolarismo e contro ogni ipotesi di ritorno al proporzionale smuove le acque, dentro e fuori il suo partito. Ancor più lo fa il pronostico di uno dei massimi esperti di sistemi elettorali, Roberto D’Alimonte, secondo cui un centrosinistra a guida Renzi sarebbe in grado oggi di ottenere la maggioranza assoluta sia alla Camera, che al Senato, anche con il tanto vituperato “porcellum”. Difficile capire quanto sia fondata questa previsione, ma la presenza non di due, ma di tre poli (il Movimento 5 Stelle di Grillo, che appare in ripresa nei sondaggi) autorizza a nutrire più di un dubbio.

Renzi, comunque, lascia intendere che si potrebbe tornare a votare anche con questo sistema elettorale. Che sia una minaccia effettiva, o solo una maniera energica di fare pressione, poco importa. Di sicuro dimostra la gran fretta che anima il sindaco di Firenze, che si potrebbe tradurre in atti concreti nelle settimane immediatamente seguenti alle primarie, anch’esse fissate per la data fatidica dell’8 dicembre. Potrebbe cioè finire per essere lui, e non Berlusconi, a dare il colpo di grazia al governo.

Tanta fretta è stata perfettamente percepita dal Capo dello Stato, che ha chiesto ai partiti della traballante maggioranza di Letta di arrivare alla riforma della legge elettorale prima della sentenza della Corte costituzionale, attesa per il 3 dicembre. È opinione comune che l’attuale formulazione del premio di maggioranza sarà dichiarata incostituzionale, in assenza di una soglia minima perché il meccanismo scatti. Se il pressing del Quirinale dovesse trovare una risposta positiva presso i partiti, a fine anno tutto sarebbe pronto per un ritorno al voto fra fine febbraio e inizio marzo, con  buona pace del governo delle larghe intese e delle riforme, ancora una volta arenate lungo la strada.