La recente approvazione del disegno di legge costituzionale da parte del Senato con una maggioranza di poco superiore ai due terzi testimonia le difficoltà del processo di riforma ordinamentale che costituisce un obiettivo essenziale da raggiungere nei prossimi tempi non solo per il Governo Letta, ma anche per lo stesso capo dello Stato.
Come noto, per un verso il presidente del Consiglio, nel programma esposto alle Camere al momento della fiducia, ha indicato le riforme costituzionali e istituzionali tra i principali scopi che la maggioranza delle larghe intese deve prefiggersi. Per altro verso, il presidente della Repubblica, già nel discorso di insediamento, aveva collegato il suo rinnovato impegno alla necessità che le forze politiche degli opposti schieramenti trovassero un comune terreno di intesa nel necessario percorso riformatore che da molti anni impegna vanamente il sistema politico-istituzionale. Del resto di tale impegno costituivano già testimonianza le risultanze del gruppo di lavoro a composizione bipartisan nominato dallo stesso Napolitano in materia di riforme istituzionali nella convulsa fase post-elettorale. E i successivi esiti della Commissione di esperti nominata dal presidente Letta proprio su questi temi hanno egualmente dimostrato non tanto la presenza di univoche soluzioni condivise, quanto la possibilità di dialogare anche tra posizioni distanti che hanno comunque largamente condiviso l’obiettivo di realizzare le riforme da molti auspicate per dare nuovo e decisivo sviluppo alle nostre istituzioni rappresentative.
Non è un paradosso, poi, che proprio dai voti della Lega Nord sia venuto il contributo decisivo per il raggiungimento al Senato della maggioranza dei due terzi che pone al riparo dall’immediata richiesta di referendum popolare sul primo passo della strada che si intende percorrere sulla via delle riforme: ciò dimostra che anche questa formazione politica, pur estranea alla maggioranza delle larghe intese, si mostra interessata al procedimento di riforma che si è inteso avviare all’inizio di questa legislatura scegliendo una procedura parzialmente derogatoria rispetto all’articolo 138 della Costituzione. Scelta che ha imposto la preventiva approvazione di un’apposita legge costituzionale “di procedimento”, seguendo così l’esempio di precedenti tentativi peraltro infruttuosamente percorsi.
Un aspetto essenziale di tale procedura derogatoria è il fatto che la funzione referente sarà attribuita ad un’apposita commissione bicamerale in cui le forze politiche saranno rappresentate in proporzione ai voti ricevuti nelle elezioni delle due Assemblee, e non tenendo conto dei seggi loro attribuiti in base anche ai differenziati premi di maggioranza previsti dalle vigenti leggi elettorali.
A ben vedere, si è trattato di una scelta tattica per ragioni strategiche. Scelta tattica, soprattutto perché la procedura dell’art. 138 Cost., caratterizzata dalla pari partecipazione della Camera e del Senato, rende assai problematica una riforma costituzionale che intenda ridefinire in profondità l’assetto bicamerale e in particolare rimodulare in modo consistente l’assetto e le funzioni del Senato.
Ragioni strategiche, perché collocando l’intero processo riformatore all’interno del medesimo percorso procedimentale – seppure prevedendo la possibilità di giungere all’approvazione di più leggi costituzionali per settori omogenei – la riforma viene guidata in modo unitario secondo la logica del necessario compromesso: chi vorrà partecipare sa già che, se qualcosa otterrà, a qualcos’altro dovrà rinunciare. È dunque un modo per coinvolgere tutti le componenti “responsabili” nel processo riformatore, dando a ciascuna pari dignità: per ciò stesso il procedimento prefigurato tende ad assumere un carattere “quasi costituente”.
Probabilmente, è proprio questo ciò che ha determinato, in nome della difesa della Costituzione, la fiera opposizione di una parte dell’opinione pubblica e di alcuni settori del Parlamento, in specie da parte del Movimento 5 stelle e di Sel. Si tratta di un’opposizione in cui confluiscono elementi di natura ideologica, profili politici di ordine contingente e argomenti di rilievo costituzionalistici.
Dal punto di vista ideologico, una profonda revisione della Costituzione viene considerato un tradimento del patto costituzionale che era stato stipulato tra i partiti del Cln. Dal punto di vista contingente, il successo di un siffatto processo di riforma consentirebbe ai partiti che riuscissero nell’impresa di riacquistare consenso e legittimazione popolare; di converso, la sconfitta del processo di riforma confermerebbe la crisi dei partiti medesimi e darebbe ulteriore linfa a chi trova la propria forza essenzialmente nel progressivo deperimento ed esaurimento dell’attuale quadro partitico. Dal punto di vista costituzionalistico, infine, il procedimento derogatorio è considerato un’inammissibile violazione dell’art. 138 Cost., considerato come una specie di super-norma per lo più intangibile.
Se le prime due motivazioni appaiono esclusivamente di carattere politico, e dunque su questo terreno vanno considerate e contrastate, la terza richiede qualche considerazione di ordine giuridico: la Costituzione pone come irrivedibile la sola forma repubblicana, e la Corte costituzionale ritiene che sussistano anche i limiti impliciti alla revisione costituzionale, e che tra questi vi siano i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inviolabili. Ma certo il disegno di legge costituzionale in corso di approvazione non appare lesivo né di principi fondamentali desumibili dall’art. 138 Cost., né di diritti inviolabili.
Infatti, tenendo conto dei principali aspetti innovativi nei confronti dell’art. 138 Cost., né la previsione della predetta Commissione bicamerale con funzioni referenti, né il dimezzamento del periodo minimo di tempo che dovrà intercorrere tra le due deliberazioni delle Assemblee parlamentari, né la previsione della possibilità di sottoporre a referendum le leggi costituzionali anche se saranno approvate con la maggioranza dei due terzi, appaiono contrastanti con il contenuto essenziale dell’art. 138 Cost.
Si attende adesso l’ultimo voto della Camera dei deputati per dare concreto avvio al procedimento di riforma che, come risulta anche dagli interventi degli ultimi giorni, vede il capo dello Stato impegnato nel sollecitare con le sue esternazioni e nel dare sostegno in vario modo a quel processo riformatore che, per quanto limitato nella sua estensione oggettuale (infatti, ad esempio, solo marginalmente potrà interessare la magistratura), appare forse come un’ultima possibilità a nostra disposizione: rinunciare a questa chance significherebbe rinviare le riforme ad un futuro sempre più incerto e difficile.
Probabilmente, anzi, implicherebbe non solo la rinuncia definitiva in questa legislatura a qualsiasi ipotesi di revisione costituzionale, ma anche il consolidarsi della sfiducia nei confronti delle capacità riformatrici dello stesso Parlamento. Si affaccerebbe con sempre maggiore forza l’ipotesi che ci sarebbe bisogno di riforme di sistema ben più incisive di quelle adesso ipotizzate, e nello stesso senso potrebbe trovare facile consenso nell’opinione pubblica la suggestione di realizzare queste “grandi” riforme attraverso strade extra-parlamentari: un esito davvero deprecabile per chi oggi si erge a difensore delle nostre istituzioni democratiche.