Forse con minore consapevolezza, per via di una sorta di rassegnazione che sembra aver preso il sopravvento, stiamo per andarci ad avvitare in una situazione a tinte ancor più fosche di quelle che credevamo ormai di esserci lasciati alle nostre spalle. Il governo delle larghe quanto fragili intese si ritrova d’un colpo, infatti, senza il sostegno dei leader dei tre partiti che ne avevano consentito il varo, tutti passati improvvisamente a remare contro. Mario Monti dice che non è diventato un detrattore, ma si fa francamente fatica a definirlo in modo diverso dopo le sue stroncature della legge di stabilità, che – prendendo il posto della vecchia legge di bilancio – rappresenta la legge fondamentale di qualsiasi esecutivo. Silvio Berlusconi rifonda Forza Italia e si accinge a chiedere a ogni singolo parlamentare la prova di fedeltà, ossia il ritiro del sostegno a un governo che non si oppone alla sua decadenza. Infine il Pd, che è poi il partito del presidente del Consiglio, nel quale Matteo Renzi parla già da leader in pectore e dice anche lui: “Mai più larghe intese”.



Il premier non sembra farsi scalfire da tutto ciò e va per la sua strada. Ha incassato un forte sostegno da Obama. Diventato in pochi giorni, però, moneta fuori corso per l’imbarazzante situazione in cui si è venuta a trovare l’Amministrazione americana per via degli spionaggi agli alleati venuti fuori improvvisamente. Insomma, il premier con il più ampio consenso politico della storia recente e meno recente si scopre più solo che mai proprio nel momento politicamente più delicato della sua azione, essendo in discussione la legge finanziaria, snodo cruciale e ineludibile per andare avanti.



Il Quirinale, dal canto suo, riferimento ultimo di questo esecutivo, pur facendo leva sulla straordinarietà del secondo mandato accettato quasi sotto costrizione, sembra ormai aver esaurito il suo campionario di forzature istituzionali che la straordinarietà della situazione ha imposto, senza che sul fronte delle riforme necessarie per uscire dal pantano si muova niente: i partiti non riescono a mettersi d’accordo nemmeno al loro interno e sono ben lontani dal mettersi d’accordo fra di loro.

In un quadro così deteriorato si vorrebbe fare professione di maggiore fiducia, ma davvero non si vede da dove iniziare. Salvo a volersi consolare con l’idea che la politica non è tutto, non essendo né l’inizio né la fine dell’agire umano. Tuttavia con la sua inerzia la politica ha il potere, occorre esserne consapevoli, di rendere difficile – molto difficile, in taluni casi impossibile – il compito di tanti onesti cittadini e tanti tenaci imprenditori che ancora tengono in piedi questo martoriato Paese, non si sa per quanto ancora.



A volte si sente dire, e affiora non di rado anche nei commenti sul Sussidiario, che dietro questa alleanza di governo ci sarebbero poteri forti, grandi centrali economiche internazionali e quant’altro. Sotto questo profilo verrebbe da commentare, allora, che non ci sono più nemmeno i poteri forti e le Mediobanca di una volta. Verrebbe anzi da dire – a prezzo della impopolarità – che ci sarebbe da rimpiangere che non ci sia, che so, nemmeno una Confindustria o una Banca d’Italia in grado di commissariare in qualche in modo delle istituzioni che non appaiono in grado di fare il loro dovere. Per di più, di fronte a un timoniere come l’attuale presidente del Consiglio che regge la scena al di sopra delle attese, quanto meno sul piano internazionale, pare che i leader dei partiti invece di esserne compiaciuti per averlo sostenuto mostrino una certa gelosia per i rischi insiti in un suo eventuale successo. Se Letta si consolidasse, infatti, questo porterebbe al superamento o logoramento degli attuali detentori delle tre leadership.

Il successo del governo Letta sarebbe infatti palesemente foriero del passaggio da Berlusconi ad Alfano nel Pdl, da Monti a Mauro dentro Scelta Civica, mentre nel Pd l’affermarsi di una figura come l’attuale premier sarebbe certamente ingombrante per un Renzi che non vede l’ora di prendere in mano lui la situazione e si mostra infatti incline a mutare spesso opinione pur di assecondare questa sua aspirazione già troppe volte rimandata.

In questo quadro confuso parlare di riforme sembra un’utopia. Si sente spesso dire in giro che la priorità non sono né le riforme né la legge elettorale. Si dice spesso ad esempio – in modo un po’ semplicistico – che con la legge elettorale non si mette il piatto a tavola. Questa percezione della pubblica opinione alimenta però la irresponsabilità dei ceti dirigenti dei partiti che sembrano non rendersi conto, non fino in fondo almeno, che con questo loro immobilismo stanno decretando pian piano il loro fallimento. Verrebbe da chiedersi – per fare un esempio sportivo – se la popolarità del calcio avrebbe potuto resistere a 20 anni in cui non si fosse riusciti ad assegnare lo scudetto, o la coppa dei campioni, per via di regole non chiare o inefficaci. Che è poi proprio quanto è accaduto alla politica degli ultimi 20 anni. Nessuna disciplina, nemmeno la più popolare – e la politica non lo è – sarebbe in grado di tenersi in piedi in un quadro di regole inadeguate, e la sua implosione diventerebbe inevitabile. La domanda è allora questa: possiamo permetterci il lusso di una implosione delle nostre istituzioni?

Ha ragione il sindaco di Firenze quando dice che basterebbe applicare al governo nazionale il sistema che si applica per i Comuni in base al quale si elegge attualmente un sindaco e una maggioranza con grande chiarezza, a tutto beneficio della governabilità e della credibilità delle istituzioni. Ma Renzi non può far finta di non capire che un cambiamento così epocale degli assetti istituzionali (che comporterebbe anche una modifica della costituzione, non solo della legge elettorale) abbisognerebbe di ben altra concordia e di ben altro sostegno politico alla maggioranza che questo cambiamento epocale dovrebbe condurre in porto.
Insomma ognuno dice la sua soluzione, ma ognuno ci mette del suo per renderla non perseguibile, mostrando un senso di responsabilità assolutamente inadeguato alla drammaticità della situazione. Un quadro a tinte fosche, si diceva, di fronte al quale non resta che un auspicio: che il popolo nonostante tutto non perda la speranza, ma inizi a pretendere di più dai suoi governanti. Perché l’era dei proclami altisonanti, lasciando marcire le cose così come sono, è davvero conclusa.