Quando Roberto Formigoni si è presentato alle telecamere annunciando che c’erano 23 firme in calce a un documento di senatori del centrodestra per votare la fiducia si poteva già intuire come sarebbe andata a finire. Ci è venuto quindi di fiondarci su Twitter, come ci capita di rado, per azzardare una previsione: «#Berlusconi potrebbe votare alla fine in disaccordo con se stesso», abbiamo pronosticato. Pari pari scrive oggi Gian Antonio Stella: «Silvio tradì se stesso», è il titolo del Corriere. Non aveva altra scelta, d’altronde, per non sancire apertamente una sconfitta, anche de questo non ha impedito ai giornali oggi di parlare di «resa» del Cavaliere, come effettivamente è.
Ma c’è sempre un effetto inerziale nella gestione finale delle guerre perdute, che produce effetti grotteschi ancorché drammatici per via dello scoramento dall’esercito sconfitto che interrompe i flussi informativi fra il generale e le truppe in prima linea. E si vede che nessuno aveva avvertito Sandro Bondi che il capo stava per arrendersi, e così si è ritrovato a recitare il ruolo di Teruo Nakamura, l’ultimo soldato giapponese impegnato a combattere ben oltre la fine della guerra. Mettendo in fila, in un discorso di fuoco, al Senato, le ragioni per cui mai e poi mai Letta avrebbe potuto meritare la fiducia del Pdl, laddove il capo avrebbe invece di lì a poco dichiarato, scuro in volto, di aver deciso «non senza interno travaglio» di votare sì. Enrico Letta apprende l’annuncio del Cavaliere sorridendo dal suo scranno. «Grande!», è il commento ironico che il premier consegna attraverso la lettura del labiale.
Gli effetti dell’ultima notte passata con al fianco i falchi Nicolò Ghedini e Denis Verdini, con quest’ultimo a compulsare i tasti del telefono per chiamare ad uno ad uno i senatori potenziali dissidenti, si materializzano nella ottimistica e un po’ servile narrazione al capo della conta che ci sarebbe stata all’indomani. Il dramma del Cavaliere si consuma così, con l’annichilimento del ruolo di chi (come Fedele Confalonieri o Gianni Letta) avrebbe potuto dargli per l’ennesima volta il consiglio giusto dell’amico, in virtù di ragionamenti più aderenti alla realtà – quella del Paese e quella sua personale – che avrebbero dovuto spingerlo per tempo a quella stessa scelta che poi farà ma solo all’ultimo momento e in pieno disaccordo con se stesso.
Anche con quanto dichiarato solo il giorno prima, con scelta un po’ subdola, nella lettera al settimanale Tempi.
Alla buvette, il bar di Montecitorio, Paolo Cirino Pomicino alle prese da solo con un piattino di frutta è un altro segno dei tempi, poco inclini ad attingere alle memorie del passato nell’avventurarsi in terra incognita. «In treno – rivela “Geronimo” – ho mandato messaggi a tutti, anche ad Alfano. Ho suggerito loro di dire che i voti di Berlusconi ora sono aggiuntivi. Voglio vedere se lo faranno». Non lo faranno, e se ne capisce la ragione. La partita nel fu Pdl in travaglio verso Forza Italia, con l’abbandono che si preannuncia di una robusta componente in libera uscita verso il progetto del Ppe italiano, non è finita. E chi la conduce con l’idea ancora di vincerla non può permettersi il lusso di farlo sfidando e irridendo a quello che è ancora il capo, sebbene in crisi, della baracca. L’ha detto Letta, però, che quei voti non sono più necessari e condizionanti. Indicando l’orizzonte della sua nuova maggioranza politica e mostrando disinteresse per i voti berlusconiani in grado, assommandosi agli altri, di aumentare persino il bottino di Letta rispetto al giorno dell’insediamento.
Ora, però, non è facile per nessuno. Il Cavaliere non sarà salvato nemmeno dai tribunali della storia, che non avrà pietà per chi ha provato a modellare gli interessi di un Paese in ginocchio a quello suoi personali. Ma non sarà, la storia,neanche molto generosa con chi, avendone avuto altre occasioni, ha trovato modo di marcare il territorio con il capo solo quando questi era ferito, a un passo dall’espulsione per mano giudiziaria dalle aule parlamentari.
Un processo, peraltro, ancora molto complicato da realizzare, ancor più difficile da spiegare agli italiani sempre più lontani dalla politica e sempre più tentati dalla disaffezione passiva (il non voto) od operosa (la protesta fine a se stessa di Beppe Grillo).
Dal male, come sappiamo, però, può ancora scaturire un bene. Quel cambio generazionale di cui tutti parlano, simboleggiato dall’immagine della stretta di mano fra i quarantenni Letta e Alfano, rimettendo al centro della gestione della cosa pubblica le fasce di età vittime del declino. Molto dipenderà dalla legge elettorale, e uno dei principali strateghi del nuovo centrodestra che apre alle larghe intese, il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello, la sua preferenza l’ha già indicata, per il doppio turno. Potremmo sbagliarci, ma sembra proprio lo strumento più idoneo perché i due tronconi di “responsabili”, di sinistra e di centrodestra, possano mettersi d’accordo in seconda battuta a favore di una larga coalizione, dopo aver corso da soli. Vincendo la concorrenza al secondo turno con i candidati estremisti ed anti europei di diverso segno, i grillini da un lato e i berlusconiani dall’altro. Ma su quest’ultima formazione, quella di una destra populistica guidata da Berlusconi non saremmo pronti a scommettere. Magari capiterà la stessa cosa di ieri: il Cav. potrebbe lanciare l’idea, spingere sull’acceleratore, salvo fermarsi ancora una volta prima dello schianto. A quel punto andranno avanti su quella strada solo gli ultimi giapponesi. E forse l’Italia, de-berlusconizzata come da oggi si dice, potrebbe essere in tal modo finalmente pronta a lanciarsi verso una prospettiva “normale”: due partiti di chiara matrice europea, alleati per un periodo per il bene del Paese, salvo poi dividersi una vota conseguito il risultato che noi tutti dovremmo auspicare di uscire da questa maledetta crisi. Con un monito che dovremmo finalmente mandare a memoria: mai più partiti dell’uomo solo al comando, con un Paese ostaggio di una lotta fra chi quell’uomo vuole abbatterlo, in ogni modo, e chi lo vuole difendere senza se e senza ma, anche a costo di mettere sotto i piedi le regole dello Stato di diritto. Che tali sono solo fin quando sono valide per tutti.
Molto dipende ora, però, dal coraggio che mostrerà finalmente Angelino Alfano, che ancora una volta vede incentrate sulla sua persona tante aspettative di chi spera che le cose, in Italia, possano cambiare. Un coraggio di affrancamento che forse avrebbe dovuto mostrare anche prima, quando l’uomo a cui è rimasto fedele sancì che non aveva il “quid”, e quando – una volta decise le primarie che lo avrebbero incoronato – si vide mancare le risorse dai tesorieri, di stretta osservanza berlusconiana. Ora o mai più, Alfano dovrebbe averlo capito ormai.Prima che l’uomo solo al comando faccia sbarcare la… Marina.