Caro direttore,
“La politica deve decidere se favorire la società esclusivamente come strumento, manipolazione di uno Stato e del suo potere oppure favorire uno Stato che sia veramente laico, cioè al servizio della vita sociale secondo il concetto tomistico di bene comune”. Non trovo parole più adeguate di queste, pronunciate da don Giussani ad Assago nel 1986, per indicare il criterio ultimo di ogni battaglia politica. È anche il criterio che in tanti abbiamo seguito come guida per la nostra azione in questi giorni.
La disponibilità alle dimissioni di massa (mai consegnate ai Presidenti delle Camere) dei parlamentari Pdl era un segnale politico per evidenziare come l’eliminazione per via giudiziaria di uno dei principali leader politici italiani non poteva essere derubricata a “vicenda personale di Berlusconi”, ma costituiva un problema di democrazia, anche a fronte di dichiarazioni di voto espresse dalla maggioranza dei componenti della Giunta del Senato prima di aver guardato le carte e dell’indisponibilità a rinviare la legge Severino alla Consulta per verificarne la costituzionalità. Procedura sulla quale si sono espressi favorevolmente molti giuristi autorevoli e personalità non certo vicine al centrodestra come Luciano Violante.
Ma la decisione repentina e senza confronto interno di fare dimettere i ministri del Pdl ha segnato un innalzamento del livello dello scontro inaccettabile. In un momento di crisi profonda, ma in cui si vedono alcuni timidi segnali di ripresa, una crisi di governo avrebbe determinato danni incalcolabili. Non alla politica, innanzitutto, ma alle famiglie, alle imprese e ai lavoratori, ai giovani.
Il governo di larghe intese guidato da Enrico Letta da cinque mesi ha iniziato a mettere mano ai problemi italiani e a cercare di risolverli. Fermarne l’azione avrebbe portato al baratro, perché, anche nel caso di nuove elezioni, con questa legge elettorale non si sarebbe verificata una maggioranza stabile, con l’aggravante di un Parlamento delegittimato da una prevedibile sentenza di incostituzionalità del Porcellum. In questi giorni, è stato detto che la stabilità non sarebbe un valore: non è un valore assoluto, ma è decisivo in un momento in cui c’è bisogno di fiducia per rilanciare consumi e investimenti, che sono la condizione per uscire dalla crisi. Inoltre, ci saremmo trovati la Trojka a decidere delle politiche economiche italiane, come abbiamo visto (conseguenze comprese) in Grecia.
La politica non può mai andare contro il popolo. Nei giorni scorsi tutti i corpi intermedi, in particolare le associazioni imprenditoriali, i sindacati, la stessa Chiesa, ma anche i cittadini per strada, hanno con forza chiesto che non si interrompesse l’esperienza del “governo di servizio” in carica.
Nel PDL il confronto è stato tra chi voleva affermare il criterio del bene comune e chi avanzava criteri finalizzati al partito. Si sono scontrate due visioni. Al di là delle posizioni estremiste dei cosiddetti falchi, che hanno portato a scelte di irresponsabilità ho avuto anche modo di sentire ragioni corrette e a mio avviso valide, ma parziali; ad esempio, un caro amico deputato sosteneva che se non si difende la democrazia, attraverso la difesa di Berlusconi, si mette in pericolo la libertà di tutti. Ora, siamo tutti d’accordo nella battaglia per una giustizia non piegata a fini politici e quindi nella difesa di Silvio Berlusconi vittima di un accanimento giudiziario senza precedenti, ma ciò che non abbiamo potuto condividere è che questa difesa dovesse essere fatta a spese del nostro popolo. Le due cose non si escludono: il bene comune contempla sia l’azione governativa per il rilancio del Paese sia la battaglia sulla giustizia.
Siamo stati tacciati di essere “traditori”, ma non si capisce di chi se il “tradito” ha chiesto a tutto il Pdl di votare come noi.
Il voto di fiducia di ieri al governo non è una vittoria di Alfano e delle “colombe”, ma una vittoria dell’Italia. Lo hanno riconosciuto in molti: c’è stata una battaglia interna, ma questa volta (anche a differenza di altri partiti) non per conquistare le poltrone e la plancia di comando, ma per affermare il criterio vero e ultimo della politica: il bene del Paese. Ora, da questa battaglia, si apre una nuova prospettiva: costruire non un “nuovo (ulteriore) partito di centrodestra”, ma – su questa posizione – costruire un “centrodestra nuovo”. Un partito moderato, che non significa “moscio”, ma responsabile e effettivamente rappresentativo dell’area moderata del Paese. Non c’è in ballo una scissione o un nuovo gruppo o una ripartizione di cariche, ma la linea politica di un partito che vuole sostenere stabilmente l’azione di questo governo.
L’intervento di don Giussani ad Assago proseguiva e concludeva con queste parole: “Ho fatto quest’ultima osservazione pur ovvia a tutti per ricordare che e` un cammino nient’affatto facile ma duro, come del resto il cammino di ogni verita` nella vita. Ma bisogna non aver paura, anche qui, di quello che diceva il Santo Evangelo: chi si tiene strette le sue cose, la sua vita, le perdera` e chi dara` in nome mio la sua vita la guadagnerà”.
Abbiamo corso e stiamo correndo un rischio, lo sappiamo bene. Ci sono momenti, dei tornanti, nella vita personale e politica nei quali occorre mettersi in gioco, scontrarsi anche con persone a cui si è legati con un sincero affetto per affermare il criterio per cui si vive e di fa politica. In questi giorni siamo stati chiamati a questo e abbiamo deciso di correre il rischio. Ma, per meno di questo, fare politica non avrebbe nessuna dignità.