Il grande polverone sulla decadenza di Silvio Berlusconi, sul “caso italiano del Cavaliere”, è alla svolta finale, nonostante la furia del leader di Forza Italia. Tra scossoni, possibili scissioni e altre diavolerie, può anche darsi che la politica trovi un assestamento funzionale.
Ma l’Italia e il suo governo sono ancora in un metaforico carcere-castello di If. In questi giorni il mio compagno di prigionia, l’abate Faria, è diventato meno immaginifico e non parla più di tesori sotto l’isola di Montecristo. Sta invece ragionando sulla “strategia flessibile”, quella degli antichi “mandarini cinesi”, per consigliarla al nostro giovane presidente del Consiglio, Enrico Letta, e al suo grande tutore, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ci sono tre grandi problemi da affrontare e forse l’Italia li può superare, se si agirà con coraggio e accortezza.
A dispetto di quello che scrivono tutti i “gazzettieri” elettronici o cartacei, c’è innanzitutto un nodo internazionale da sciogliere. In questi ultimi venti anni di sconcertante seconda Repubblica non tutti hanno compreso fino in fondo che il mondo è completamente cambiato dai tempi quasi felici della “guerra fredda”. Oggi siamo alla vigilia di un riordino del sistema mondiale, con vecchi e nuovi protagonisti.
L’Italia può essere un comprimario, un ottimo comprimario del riordino mondiale, non un protagonista, ma può restare ugualmente in “serie A” e non scendere nella divisione inferiore. Lo sfondo di questo riordino mondiale è il grande accordo sul commercio transatlantico e ha due protagonisti indiscussi, Stati Uniti e Germania, che si ispirano a due politiche economiche al momento differenti. Ci sono, in questa grande trattativa, alcune sorprese, come quella del britannico David Cameron, che si è avvicinato stranamente ad Angela Merkel. E’ ricca di incertezze e di doppi sensi questa manovra inglese. E’ un tradimento verso i “cugini” americani o è il tentativo di una mediazione da grande protagonista?
Il problema, e l’interesse visto da parte italiana, è che il grande accordo transatlantico sia realizzato in tono poco trionfalistico, cioè sia un mezzo accordo, dove altri Paesi possono giocare un ruolo. Se tra Washington e Berlino si chiudesse un accordo secco, converrebbe far gestire la nostra politica economica, e forse anche quella complessiva alla Bundesbank. Ma è sperabile, ancora adesso, che gli americani, divisi dai tedeschi sulle grandi scelte economiche, guardino anche alla geostrategia e ritengano che un ruolo nel Mediterraneo a un Paese come l’Italia convenga preservarlo. Tutta l’area mediterranea, dal Medio Oriente al Magreb, è destabilizzata anche per una serie di scelte ideologiche e un po’ schematiche operate dal presidente Barack Obama, magari appoggiato da qualche sgomitante francese di turno, sia post-gollista, sia socialista.
E’ importante che Enrico Letta abbia fatto una visita negli Stati Uniti e si sia incontrato con Obama. C’è da sperare che, oltre all’arrivo di investimenti, arrivi dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato il riconoscimento all’Italia, in ambito europeo, di “Stato-principe” della zona Sud, dell’area mediterranea, non solo per tenere aperto un dialogo con il mondo arabo in subbuglio, ma anche per evitare tragedie vergognose (di carattere europeo e italiano) come quella di Lampedusa. Basterebbe questo riconoscimento per permettere al giovane Enrico Letta di passare alla storia come un precursore di un nuovo ruolo italiano (molto simile al vecchio) nel nuovo riordino mondiale in corso.
C’è un secondo problema che il giovane Enrico Letta deve sapere affrontare. Se la “guerra fredda” è terminata a livello internazionale, anche le istituzioni statali devono essere aggiornate per una nuova stagione. La nostra Costituzione sarà anche la più “bella del mondo”, sarà stata un capolavoro di mediazione nel Dopoguerra, ma oggi appare superata, anche nella parte fondamentale.
Si pensi solo all’articolo 1. La Repubblica fondata sul lavoro conta il 40 percento di giovani disoccupati e il 13 percento di disoccupazione quasi strutturale tra tutti i cittadini italiani. Il problema è che le Costituzioni non devono essere belle (gli inglesi vivono senza una Costituzione e sono il più antico Stato liberale del mondo) ma funzionali alla propria epoca. La Costituzione di Weimar era ritenuta bellissima, ma come ricorda il mio sventurato amico, l’abate Faria, lasciò che il nazismo arrivasse al potere in Germania.
Si deve sempre partire dalla realtà, anche nella formulazione delle leggi. In Italia, soprattutto in questi ultimi venti anni, è calato dall’alto, magari dalla fantasia di qualche “Mariotto sardo”, la vocazione a un bipolarismo che fa a pugni con la storia italiana, fin dai tempi del Rinascimento se si vuole sondare la storia. Non è scritto in Cielo che si debba vivere nel bipolarismo di stampo anglosassone per essere un Paese democratico. La democrazia, cioè la risoluzione e la composizione dei problemi economici e sociali attraverso metodi non violenti, ha Cieli molto differenti. Quindi al posto di inseguire un chimerico bipolarismo, Letta si impegni in una riforma istituzionale complessiva che tenga conto della storia e della realtà italiana, così come ha fatto in questi giorni nella difesa del suo governo, andando a pescare nelle contraddizioni del centrodestra.
L’operazione non è un ritorno meccanico alla Dc della prima Repubblica, come si sente dire in giro, ma può essere un aggiornamento di quello schema per entrare nella terza Repubblica, con tutte le innovazioni istituzionali necessarie. C’è da rimodellare i poteri del presidente della Repubblica, quelli del Governo e del Parlamento. E c’è senz’altro da mettere ordine nell’equilibrio dei poteri.
Senza riaprire il “polverone berlusconiano”, non c’è dubbio che l’invadenza della magistratura nella politica italiana rasenta un disequilibrio tra i poteri dello Stato che è ormai diventata una malattia endemica. Chi non vede tutto questo, ormai dopo venti anni, è solo perché non vuole vederlo. In questo caso e questa volta non si può più solo parlare di una riforma della giustizia, bisogna attuarla al più presto a tutti i livelli, dal Consiglio superiore della magistratura fino alle aule del Tribunale civile e di quello penale.
Infine c’è il terzo problema che Enrico Letta deve e può affrontare, usando sempre una grande “flessibilità strategica”, pur facendosi valere e anche puntando i piedi nell’Europa del “rigore”. La terza questione si potrebbe definire, come dicono gli inglesi “last but not least”, in altri termini potrebbe essere anche la prima questione. Si tratta ovviamente di saper affrontare non tanto il problema della crescita, ma arginare una possibile implosione o esplosione sociale di fronte alla più grave crisi economica dal 1929. Tutti i rimedi sinora adottati non hanno procurato alcun risultato concreto. In questi ultimi due anni, dopo che la crisi mordeva già da cinque anni, tutti gli indicatori economici sono peggiorati. L’impressione è che i rimedi non abbiano solo una regia guidata da Bruxelles o da Berlino, ma anche dalle esigenze del sistema finanziario che non vuole concedere nulla rispetto ai suoi scopi e al ruolo che ha assunto nel mondo dall’inizio degli anni Novanta.
Qui ci vuole il coraggio della denuncia e la forza degli interventi-choc, non di una “terapia choc”, come ai tempi della Russia debolscevizzata e convertita in pochi giorni al liberismo. Quella fu la catastrofe procurata da un signore che si chiamava Egor Gajdar. Per l’Italia non c’è bisogno di conversioni al liberismo, ma di rendere la “repubblica delle tasse”, descritta dettagliatamente da uno studioso come Luca Ricolfi, in un Paese dove si affronti finalmente la questione fiscale insieme alla riduzione della spesa pubblica e alla razionalizzazione della pachidermica burocrazia.
La cosiddetta spending review non è una legge inventata dal governo Monti, ma esiste teoricamente in Italia dal 1980: è una legge del governo Forlani. Da allora a oggi non è mai stata veramente adottata e praticata. Si può fare se si ha la volontà politica di farlo. E si deve farlo per abbassare la pressione fiscale che sta uccidendo il Paese. Quindi, non solo quella sul cosiddetto cuneo fiscale, ma sulla tassazione in generale. E nello stesso tempo, osare un moderato intervento keynesiano così come si fece nell’immediato dopoguerra. Non è impossibile. Letta ce la può fare, può almeno tracciare la strada di un’inversione di tendenza. Avrebbe assolto il suo compito storico in un’Italia che sembra destinata al declino.