Si è chiusa una stagione politica, mercoledì si sono chiusi vent’anni, in modo politico, con un confronto politico forte“: così il premier Enrico Letta si è espresso con Maria Latella in una intervista per Skytg24. Il voto alla Camera segnerebbe la fine di un’era, l’uscita di scena di Berlusconi, un punto di svolta nel panorama politico italiano. Un giudizio azzardato, secondo alcuni, poiché il quadro resta ancora incerto e il leader del Pdl ha dimostrato di avere cento vite come i gatti.



In realtà la percezione della fine di un periodo storico, che ha trovato in Silvio Berlusconi una sua espressione significativa, è, in qualche modo, nell’aria. Noi stessi ne avevamo parlato, in una intervista per  ilsussidiario.net nel novembre 2011: “Berlusconismo: la fine di un ‘sogno’ nato nel ’68“. Se è vero che il Cavaliere è stato azzoppato non per i meriti dell’opposizione ma per un accanimento giudiziario senza precedenti è altresì vero che la sua persona, da fattore rilevante nella risoluzione della crisi, come è stato nel 1994 al tempo della caduta della prima Repubblica, è diventato elemento essenziale della crisi. Un capo carismatico è tale se vince e raccoglie consenso. Nel momento in cui cade in disgrazia è destino che debba togliersi dalla scena. 



In questo la politica non fa sconti. Berlusconi ha dato forma, più di altri, alla seconda Repubblica, quella sorta dal lavacro di Mani Pulite dopo che, con l’89, l’Occidente ha ritenuti inutili e dispendiosi i tradizionali partiti non comunisti, l’industria di Stato, il Welfare. Il suo genio è stato nel raccogliere un’eredità dispersa, quella democristiana e quella socialista, fondendola in un progetto liberale e paternalistico a cui venivano associati la destra missina e la nuova Lega di Bossi. Un partito nazionalista ed uno antinazionale (la Lega) erano uniti in un’alleanza all’apparenza impossibile grazie al carisma del capo. 



Ma sul piano ideale la sintesi eclettica non poteva tradursi in un progetto politico autentico. Forza Italia, il partito di Berlusconi, è sempre stato un non-partito, un’associazione politica fotocopiata sul modello aziendale, soft, virtuale, tenuto insieme solo dal prestigio del capo. Un partito mediatico, la cui forza, oltre che nel carisma del leader, è stata quella di assecondare il processo economico-ideale del capitalismo post-’89, una sorta di italian-style della globalizzazione: dal mito del self-made-man, al business, al divertissment. L’ideale proposto è stato quello di un mondo di giovani, sani, belli, vincenti, felici. Un mondo consacrato dalle Tv berlusconiane destinate a formare intere generazioni, senza memoria ed ossessionate dal presente. 

L’apogeo di Berlusconi, il suo momento di gloria, è stata l’alleanza con George Bush al tempo della guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein. Il premier italiano, associato all’inglese Blair e allo spagnolo Aznar, era chiamato a disegnare il nuovo ordine mondiale. È il momento della stagione “teocon”, supportata in Italia da Il Foglio di Giuliano Ferrara, che vedeva il presidente del Senato, Marcello Pera, tirare (inutilmente) per la giacca Benedetto XVI chiamato a legittimare il connubio tra Occidente “cristiano” e guerra. 

Dopo il disastro dell’inferno iracheno, con i tragici postumi che arrivano fino a noi, l’era berlusconiana ha attraversato gli ultimi fuochi, quelli senili segnati dai giochi ludici della corte di Arcore. Poi la tempesta ed il declino. Un tramonto che, al di là della persecuzione giudiziaria, ha le sue motivazioni in una serie di fattori. 

Innanzitutto nella crisi della globalizzazione che ha il suo punto d’arresto nel fallimento di Lehman Brothers nel 2008. Viene meno la mitologia che ha sorretto la politica berlusconiana: quella di un benessere economico ininterrotto con le sue promesse di felicità. In tempo di crisi il lusso genera disprezzo, risentimento, vendetta, bisogno di capri espiatori. Il secondo motivo è, sempre nel 2008, il cambio della presidenza americana da George Bush, l’amico Usa, al democratico Barck Obama. Il terzo è il rapporto troppo prossimo con Putin, l’illusione di creare un asse preferenziale con la Russia fuori o ai bordi del quadro europeo-americano. Il quarto è la divergenza, talvolta sgradevole, con Angela Merkel e la Germania, perno inevitabile dell’Europa. 

L’esito degli ultimi tre punti è la solitudine di Berlusconi, e quindi dell’Italia, nel quadro occidentale, la sua anomalia. Agli elementi sopra indicati ne va poi aggiunto un altro, non meno rilevante: la nomina, nel 2013, di Papa Bergoglio. È evidente, anche ad uno sguardo distratto, l’enorme distanza che segna l’attuale pontificato – la sua attenzione alla povertà, all’emarginazione, la critica alle false promesse della globalizzazione, ai modi di vita, falsi e fatui, della “società del vuoto” (Lipovtsky) – rispetto ai canoni imperanti nell’era berlusconiana. Un’era, va detto, che non copre solo il centro e la destra ma anche la sinistra. Anche la sinistra – e questa è stata la forza del berlusconismo – ha rincorso la politica mediatica, leaderistica, non popolare; ha perseguito l’apologia dei diritti individuali, la mentalità borghese, il disinteresse per il sociale e per il bene comune, immemore della parte autentica della sua storia.

L’era che ora giunge al termine obbliga a voltare pagina. In qualche modo è la rivincita della prima Repubblica sulla seconda. Come scrive Salvatore Merlo su Linkiesta: “L’uomo che oggi, nel 2013, è stato battuto dal suo Delfino democristiano (Alfano), dal suo presidente del Consiglio democristiano (Letta) e da un anziano presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in Italia è l’ultimo dei comunisti. La seconda Repubblica sconfitta dalla prima” (3 ottobre 2013). Non sono stati Grillo, e prima di lui, Di Pietro, a porre in crisi il berlusconismo, ma la coppia Letta-Alfano, due moderati per i quali il dialogo tra Pd e Pdl è possibile e, al presente, necessario. 

Con ciò viene meno il manicheismo politico, diviso tra berlusconiani e antiberlusconiani, che ha contrassegnato l’ultimo ventennio. Potremmo dire che in Italia il Muro di Berlino soltanto ora sta veramente cadendo. Ciò obbliga non solo il centro-destra ma la stessa sinistra a ridisegnarsi. Vissuta nella comoda rendita dell’opposizione all’eterno Caimano ora dovrà, per differenziarsi, privilegiare finalmente i contenuti, la politica e non semplicemente la ripulsa morale. L’era berlusconiana volge alla fine. Il risultato è il mutamento dell’intero quadro politico.