Alla fine, anche il Pd è caduto nel tranello: rimasto imbrigliato in polemiche interne, non parla più di contenuti. E quello che doveva essere il congresso del rinnovamento si sta trasformando in una danza bizantina che, se anche porterà alla inesorabile vittoria di Renzi, non potrà evitare il venir meno di un entusiasmo già oggi impalpabile. A dirlo è Antonio Polito, saggista ed editorialista del Corriere della Sera, che ben conosce vizi e virtù del partito guidato (ancora per qualche settimana) da Epifani.



Polito, come stanno andando queste primarie?
In realtà stiamo ancora attraversando la fase congressuale che precede le primarie, dove i circoli territoriali stanno scegliendo gli organismi dirigenti provinciali, in vista della scelta del segretario, in un percorso molto bizantino. Oggi, dunque, si stanno esercitando gli iscritti, successivamente anche gli elettori potranno dire la loro sul candidato premier della coalizione di centrosinistra. Detto questo, direi che sta andando piuttosto male, per via dello scandalo delle tessere, tipico di chi vuole influire sull’esito congressuale gonfiando i dati. Sono fenomeni tipici del passato e di altri partiti, in cui dei ras locali tentavano di comprarsi il consenso in vista del congresso, e che oggi stanno danneggiando l’immagine del partito nel momento in cui aveva maggior bisogno di rilancio. Di fatto, non si sta più discutendo di contenuti, come avviene inevitabilmente quando l’attenzione si sposta su altro. Non è un caso che i militanti siano molto offesi. Ma c’è dell’altro.



Cosa?
L’annuncio di Romano Prodi di non partecipare alle primarie, anche se volutamente stemperato con grande eleganza dal fondatore dell’Ulivo, è un duro colpo sul piano dell’immagine. Un colpo che pesa molto. Non dimentichiamo, infatti, che per il vasto pubblico del centrosinistra in generale, e del Pd in particolare, Prodi è pur sempre colui che mise in moto il processo che portò alla nascita del partito, al punto che alle prime primarie parteciparono ben quattro milioni di italiani. Sono certo invece che questa volta tanti elettori rinunceranno a partecipare, sulla scia di questa decisione di Prodi.



Epifani da un lato dice “E’ fisiologico che Letta possa candidarsi”, dall’altro aggiunge che “Le nostre origini sono nel Pse”, a proposito del congresso di febbraio che si svolgerà a Roma. Affermazione, quest’ultima, che fa insorgere gli ex Ppi. Perché secondo lei queste uscite laceranti?
Che Letta possa candidarsi un giorno al ruolo di candidato premier è un dato di fatto: tutti lo hanno accettato, e lo prevede anche lo statuto del partito. In merito invece all’iscrizione al Pse, in effetti è una cosa un po’ strana: fu un’ipotesi che generò una grande tensione quando nacque il Pd, e sin da allora la componente della Margherita disse che non l’avrebbe accettata. 

Lo stesso Prodi, del resto, non veniva da lì, e anche quando svolse un ruolo di primo piano a livello europeo era apprezzato dai popolari. A fronte di questa levata di scudi, nel tempo si è pensato che il Pd avrebbe dovuto lavorare per un gruppo nuovo, fatto di socialisti e democratici, per allargare la natura del gruppo parlamentare. Di fatto, fu un’idea aleatoria perché, a ben vedere, il Pd oggi può scegliere solo tra Pse e Partito liberale, ma terze vie non esistono. Invece, ogni volta che si allenta la tensione su questo tema, non manca chi prova a forzare la mano. Certo, le origini di Epifani sono nel socialismo, anzi probabilmente solamente le sue, ragion per cui dice una cosa inesatta perché nel Pd sono confluite persone con origini diverse: il Pci non c’entra nulla con il socialismo, men che meno la componente popolare. Se, invece, Epifani intende che il partito socialista europeo sia il destino del Pd, dice una cosa ben diversa, ma tutta da verificare.

È esagerato parlare di scissione in casa Pd? Non dimentichiamo che Ds e Margherita, sotto la cenere, continuano ad avere conti propri, e marchi propri registrati…
Non credo ad un rischio reale di scissione, perché oggi non c’è clima favorevole a nuovi raggruppamenti. Più interessante, invece, sarà vedere cosa succede nel fronte dei moderati: se i fuoriusciti del Pdl troveranno un’intesa con le frange del montismo, i vari Casini e Mauro, allora potrebbe crearsi un raggruppamento capace attrarre qualcuno dal Pd. Ma si tratta di piccoli numeri, che gravitano attorno a Fioroni e pochi altri. Altrettanto improbabile mi sembra una scissione a sinistra: Renzi sta assumendo posizioni radicali che non possono che compattare il partito su quel versante.

Ovviamente, molto dipenderà anche dalla legge elettorale.
Naturalmente. Del resto, più è maggioritaria, più disincentiva la frammentazione, anche se dipende “come” è maggioritaria: il Mattarellum, ad esempio, non disincentivò la frammentazione. Ad oggi, rimango convinto che, visto il clima, non ci sarà una legge molto proporzionale.

Sarà più forte o più debole il Pd senza il nemico storico Berlusconi?
Da un lato dovrebbe essere più forte, perché se riuscirà una volta per tutte a sgombrare il campo da berlusconiani e antiberlusconiani, sarà la volta buona che avrà il sopravvento la proposta politica. In questa direzione andava Veltroni, che in campagna elettorale non citava mai per nome Berlusconi, e lo stesso sta facendo Renzi. Però è anche vero che il Pd è il frutto di vent’anni di politica in cui la sinistra si è definita antiberlusconiana, al punto di commettere alcune sciocchezze come la fuga dal liberismo o il terrore della leadeship, aspetto quest’ultimo incarnato fino alla fine da Bersani. Il Pd è figlio dell’antiberlusconismo, e trovarsi all’improvviso senza il Cavaliere potrà incentivare spinte centrifughe, con qualche gruppo che tornerà alla casa madre. Ma va anche detto che Berlusconi non toglierà il disturbo nei prossimi anni…

Lei è dunque d’accordo con Alfano che dice che, anche se non si candiderà, Berlusconi guiderà lo stesso la campagna elettorale?

Non lo dice Alfano ma Berlusconi stesso quando afferma che è pronto a guidare Forza Italia. È evidente che sta finendo la vita parlamentare del Cavaliere, non quella politica, e così ci troveremo in una situazione unica al mondo, con i leader dei tre più grandi partiti fuori dal Parlamento: Grillo, Renzi e Berlusconi.

Alle ultime primarie si diceva che l’establishment del partito era compatto con Bersani: oggi con chi sta?
Quello nazionale è tutto con Renzi, e pian pianino anche quello locale sta passando con il sindaco di Firenze. Mezza Sicilia, da Leoluca Orlando a Enzo Bianco, sta facendo questa scelta. Oggi, dunque, ad eccezione di Bersani che sta ancora combattendo la sua battaglia di corrente, o di Letta, che si sta defilando, Renzi è senza concorrenti. Chi, dunque, in vista di futuri posizionamenti potrebbe schierarsi con un Cuperlo o un Civati?

(Piergiorgio Greco)