L’eterna transizione cui da venti e passa anni è sottoposta la politica italiana, tralasciando per una volta le convulsioni in atto nel centrosinistra e nel Pd con un cervellotico andamento delle primarie, fa registrare nel centrodestra un’incongruenza che l’osservatore disinteressato dei fatti proprio non è in grado di decifrare.



Mentre il Senato è chiamato a decretare l’uscita di scena del ventennale leader (ma sarà poi così? Pochi ci credono…) due partiti sono alle prese con una fase di profonda mutazione interna e con due scissioni il cui andamento parallelo sembrava destinato a sfociare in una convergenza. Ma si sa che in Italia non c’è niente di più complicato delle cose apparentemente semplici. Di fronte alla virata anti europea e anti-governo della rinascente Forza Italia un cospicuo numero di parlamentari e dirigenti ha scelto la strada della continuità, ossia la fedeltà al governo di solidarietà nazionale e, sul versante europeo, al Ppe. Parallelamente il travaglio in atto dentro Scelta Civica, ha portato la componente cattolico-popolare a mettersi in proprio di fronte al rischio di indistinto politico e valoriale cui sembrava condannata la formazione fondata da Mario Monti, che fra l’altro ha anche abbandonato la leadership del movimento. Il risultato è stato la nascita di due formazioni ancora in cerca di stabilizzazione (nome, sede, dirigenza) ma di fatto entrambe orientate (quella guidata da Alfano, come quella guidata da Mauro e Olivero, con l’apporto di Casini) verso il netto ancoraggio nel Ppe e il pieno sostegno al governo Letta.



Quando, venerdì 15, nel salone delle Carte geografiche (i nomi a volte hanno un significato) i popolari hanno preso la loro rotta separandola da quella montiana e contemporaneamente gli alfaniani con Lupi, Quagliariello, Lorenzin e Schifani hanno annunciato che non avrebbero aderito, all’indomani, a Forza Italia, tutti hanno pensato a una regia unica, a uno sbocco comune delle due operazioni. Ma le cose sono andate diversamente. È bastato attendere una sola settimana per vedere di sabato gli alfaniani impegnati nella loro convention a Piazza di Pietra e gli uomini di Mauro, Olivero, Dellai e Lucio Romano (con Casini Cesa e D’Alia dell’Udc) impegnati contemporaneamente al teatro Quirino, a poche centinaia di metri, a far salpare la loro Nave Popolare ancora alla ricerca di un nome.



Ora, la cosa davvero grottesca –  se non fosse anche un pelino drammatica – è che entrambi, su un versante e sull’altro, fanno a gara a dire che non c’è un movente nostalgico nelle loro iniziativa e rassicurano quindi che non vogliono rifare la Dc. 

Quel che accade però è esattamente il contrario di quello che vorrebbero intendere con questa insistente affermazione. Non fanno la Dc semplicemente perché non sono in grado di farla, non ci riescono. Non è che non la fanno perché hanno una prospettiva più ampia e più moderna da far valere. Non la fanno solo perché il vecchio, vecchissimo vizio dei personalismo prende il sopravvento su un’iniziativa possibile di ampio respiro che ricordi in un colpo solo il partito scomparso 20 anni fa e le formazioni popolari che sono in vita nei grandi Paesi europei. 

Alfano e Lupi non vogliono sentir parlare dei Popolari ex Scelta civica perché con loro c’è Casini che non sarebbe “potabile” per i tanti indecisi che sono alla finestra nell’ex Pdl. Poi però, dopo aver rotto con Berlusconi, già studiano il modo per allearvisi di nuovo. Cosicché per gli altri, i popolari ex montiani, che si guardano bene dall’aprire un processo che possa portarli nelle braccia di Berlusconi, scatta il veto di segno contrario: si fanno la loro convention, non fanno parlare i politici per evitare, con Casini, di offrire il destro ai detrattori.

In questo quadro la gran mole di elettori smarriti, che non vogliono andare a sinistra, ma neanche accettano che l’idea popolare sia impersonata dal populismo fanno fatica a ritrovare la strada maestra. Sentono che nessuno vuol rifare la Dc e gli scapperebbe detto un “Magari!”: magari fosse che spuntasse un contenitore laico compatibile con la storia dei cattolici in politica, cui poter guardare insieme, cattolici e laici di buona volontà.

E l’escalation giudiziaria di cui è vittima Berlusconi, e la parallela escalation delle sue invettive contro le alte istituzioni ree di non averlo difeso, non fa che rendere più difficili le vie d’uscita da individuare.

Ma il vero virus che ha ucciso tanto il Pdl quanto l’Udc, lasciando poco da salvare dopo 20 anni, è il modello del partito persona, della serie: il pallone lo porto io e debbo giocare. E non deve meravigliare che un leader si faccia scudo della sua insostituibilità alla guida di un partito per resistere alle decisioni della magistratura. E non deve allora meravigliare nemmeno che − viceversa − un leader della Dc, che fu alla guida “pro tempore” del partito come anche del governo, come Arnaldo Forlani, che certo non era un criminale, il suo giro ai servizi sociali lo fece. Senza troppo clamore, pur con la stessa convinzione, intima e non sbandierata, di esser vittima di una condanna ingiusta.

Ora, nessuno vuole rifare la Dc, dicono tutti, ma che cosa si vuol fare davvero non è dato di capire. E a scanso di equivoci ti arriva pure Gerardo Bianco a ricordare, a suon di diffide, che anche il nome Popolare è indisponibile, perché come tutti i fuoriclasse, del Partito Popolare è stata ritirata la maglia. Cosicché niente Dc, niente Partito popolare, per vedere spuntare un progetto credibile in questa metà campo dello schieramento, cui affidare fiduciosi valori ancora presenti massicciamente, nel tessuto sociale italiano, fra famiglie e associazioni, ci sarà ancora da aspettare, con fiducia. 

Tanto, tranquilli, nessuno vuol rifare la Dc. O per meglio dire: nessuno ancora se ne mostra capace. Mentre ce ne sarebbe bisogno, e in fretta, specie alla vigilia delle elezioni europee, specie in questa fase di terribile crisi. I populismi sono solo la sbornia per dimenticare, mentre i popoli europei mai come ora avrebbero bisogno di capire, meditare e lavorare, per guardare con più fiducia al futuro.