Nella spregiudicatezza demagogica con cui Berlusconi sta uscendo di scena dai palazzi delle istituzioni (martedì con l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza di governo, ieri con il voto al Senato sulla sua decadenza) c’è un elemento incommentabile, al netto del pregiudizio pericoloso che ne viene alla già ammaccata democrazia italiana: lo squallore etico, prima ancora che politico, che ne ispira la comunicazione politica con cui è già di nuovo in campagna elettorale.
Un esempio, che è un pugno nello stomaco, è il manifesto distribuito ai suoi sostenitori davanti a Palazzo Grazioli mentre si votava la decadenza. Un ragazzotto, che probabilmente non capiva neppure cosa teneva in alto per le telecamere, reggeva un manifesto su sfondo rosso sangue con la dicitura e la stella a cinque punte delle Brigate rosse e la foto di Berlusconi dichiarato prigioniero politico. Un insulto a una delle pagine più drammatiche, e a una delle figure più nobili della storia repubblicana, Aldo Moro, che questi nostri tempi disgraziati davvero non meritavano. E che fa il paio con i figli esposti con lui all’olocausto. Pura volgarità.
Ma il manifesto, dopo l’indignazione, spinge a ragionare su quella che sarà la strategia politica di Berlusconi da oggi: assediare le istituzioni dall’esterno per provare a tornarci, con il suo populismo demagogico, dopo averle per vent’anni assediate dall’interno. Si rivolge purtroppo a una pancia del paese, che c’è, per vent’anni educata dalla sua comunicazione a svilire lo Stato anche quando lo governava, denunciandone i vizi senza riformarli, ma anzi assumendoli a pretesto per secondare i vizi “civili” del paese, a cominciare dal tormentone sulle tasse, mai eliminate da lui; da buttar giù perché versate a uno Stato inefficiente, cui era “comprensibile” non pagarle. La legge del contrappasso lo porta alla decadenza per una questione di tasse.
Ma questo sarebbe il meno. Cominciato con promesse “liberiste”, che occhieggiavano purtroppo con successo anche ad ambienti moderati cattolici, promettendo meno Stato e un occhio di riguardo a giuste istanze di sussidiarietà tra Stato e società (promesse per lo più mancate), oltre alla messa in scena di valori non negoziabili in pubblico ma negoziabilissimi in privato, il berlusconismo mentre esce fuori dal “Palazzo” torna alle ragioni fondanti per cui vi era entrato, “scendendo – dall’impresa – in politica”: l’interesse personale del leader. Un’autotutela durata con successo vent’anni, forte di un eclettismo ideologico capace mediaticamente di pescare a piene mani nell’impoliticità sempre più di massa del mercato elettorale.
Che solo ieri ha ricevuto il primo vero colpo, e purtroppo non dalla politica, ma da una sentenza della magistratura che la politica non poteva ovviamente non registrare, per problemi di decoro istituzionale, oltre che di sostanza ovviamente.
Ma è proprio questo elemento – dal governo e dal Senato, Berlusconi non esce per una definitiva sconfitta politica nelle urne – a essere la spia del fatto che la parabola del berlusconismo, ancorché declinante, non è chiusa. E vedremo aggiungersi – ad assediare la politica italiana – alle truppe di Grillo quelle del berlusconismo sociale; di cui una buona sintesi fece anni fa Giuseppe De Rita, parlando dell’elogio della libertà di essere sé stessi, anche in spregio alla legalità.
Questa variazione postmoderna di un malinteso “particulare” guicciardiniano – una costante storica della società italiana, con Berlusconi immiserita in una cronaca spesso spicciola di malaffare e scandali, con plotoni di azzeccagarbugli ad unico argomento a difesa – è ciò di cui Berlusconi è stato per vent’anni insieme interprete e coautore, e non sarà la sua decadenza dal Senato a farla decantare dalla società italiana. Rischia di riempire le urne se non sue, di qualcun altro che sappia toccare le stesse corde. E da questa situazione non si risale solo con una politica migliore, ma con una società che sia capace di leggersi dentro e di uno scatto d’orgoglio nell’immaginare quel che può e che vuole essere.