“L’iniziativa della Cancellieri è stata formalmente e sostanzialmente rispettosa delle norme vigenti, nella misura in cui non si è trasformata in un’ interferenza tale da influenzare la decisione del giudice competente”. Lo sostiene Guido Brambilla, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Milano, il quale sottolinea come “rapportarsi con i detenuti significa imparare prima di tutto ad essere se stessi, qualunque tipo di lavoro si faccia: magistrato, poliziotto, educatore, direttore delle carceri o ministro. La legge attribuisce a ciascuna di queste figure un certo margine di discrezionalità nelle scelte, ed è dunque fondamentale giocare l’umanità propria e del detenuto sempre al centro del lavoro che si fa”.
Per un magistrato di sorveglianza, che cosa significa rapportarsi con umanità ai detenuti?
Trattare con umanità l’altro è una conseguenza del modo con cui io guardo innanzitutto a me stesso. Se lo faccio a partire dall’amore e dal rispetto per la mia stessa persona, non posso come conseguenza non guardare anche l’altro nello stesso modo. Se io ho a cuore il mio io e sono consapevole dell’umanità ferita e del limite che vivo, allora potrò anche guardare l’altro senza giudicarlo.
I magistrati per definizione possono decidere della vita delle altre persone. In che senso possono guardare al detenuto senza giudicarlo?
Guardare al detenuto senza giudicarlo significa innanzitutto non avere la presunzione che il bene sta da una parte (quella che giudica) e il male dall’altra (quella che viene giudicata). Tutti siamo peccatori. Anche se ciò non giustifica lo sbaglio, lo fa comprendere dentro uno sguardo più umano, dentro un cammino. E poi occorre saper usare bene gli strumenti messi a disposizione dalla legge per aiutare l’altro. Lo scopo del lavoro di un magistrato di sorveglianza è la rieducazione del detenuto, ma per me questo non vuol dire avere un progetto sull’altro. Aiutare l’altro significa innanzitutto incontrarlo ed entrare in un rapporto con lui, e ciò non può prescindere da aspetti concreti o apparentemente banali come il guardare negli occhi il detenuto durante il colloquio. Quando poi mi occupo di un fascicolo, so allora che non è soltanto un plico di carta, bensì il modo attraverso cui posso aiutare un’altra persona a ritrovare se stessa dentro a un rapporto.
Dove sta il limite tra rapportarsi con umanità con un detenuto e violare la legge?
E’ fondamentale per un magistrato che il suo intervento avvenga sempre nei limiti delle norme, ma la legge consente al giudice anche una certa discrezionalità di intervento, una certa libertà nel plasmare gli istituti giuridici tenendo conto delle diversità dei vari soggetti. Ho sempre visto il giudice di sorveglianza come un magistrato del “rapporto”. E’ cioè colui che cerca di vivere la giustizia come “aequitas”, non nel senso puramente formale del termine, ma come modulazione dello strumento giuridico rispetto alla vita dell’uomo. Quest’ultima cambia in base a diverse circostanze, perché l’uomo non è un’immagine scolpita nel legno.
Lei ritiene che il ministro Cancellieri sia rimasto all’interno di questi limiti o li abbia valicati?
L’iniziativa del ministro Cancellieri è stata per me rispettosa delle norme vigenti, non risultando che la sua iniziativa si sia trasformata in una indebita ingerenza nel lavoro del magistrato competente. Nel caso portato all’attenzione della cronaca, nessun giudice si è sentito minimamente colpito nella sua libertà di giudizio dall’intervento del ministro, che è stato solo espressione di una sollecitudine e non di un’imposizione.
L’azione della Cancellieri faceva parte quindi di quel rapportarsi con umanità di cui parlava prima?
Sì. La Cancellieri è il ministro della Giustizia, da lei dipende il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, le carceri e i rispettivi direttori. Nella misura in cui sottopone al magistrato un caso che le si presenta come particolarmente delicato, non vedo come ciò si possa tradurre in un illecito o in una scorrettezza.
Non dovrebbe spettare allo stesso detenuto, o tutt’al più ai suoi familiari, rivolgersi al giudice competente?
Non sempre ciò è possibile. Molte volte al magistrato di sorveglianza le situazioni di grave malattia di una persona detenuta sono espresse dall’esterno. E’ vero che in taluni casi è il detenuto stesso a scrivere al giudice per spiegargli che è malato, ma nella maggioranza delle volte sono altri soggetti: i parenti, gli avvocati, i responsabili sanitari dell’ospedale ove il detenuto è ricoverato e, frequentemente anche lo stesso Direttore del carcere. Quest’ultimo, tra l’altro, è un funzionario del ministero della Giustizia. Non vedo quindi quale differenza ci sia tra la Cancellieri che si preoccupa della situazione di un detenuto e il direttore di un istituto di pena che segnala al magistrato di sorveglianza un’incompatibilità grave tra le condizioni di salute di un detenuto e il carcere.
(Pietro Vernizzi)