49 a 35. No, 38 a 47. I democratici danno i numeri. E in questa surreale contesa sui risultati dei congressi locali, ormai quasi terminati, si vede chiara la profonda spaccatura che pervade il Partito democratico. Tutti contro tutti, a un mese dalle primarie, con ogni questione politica trasformata in un elemento di divisione.



Il caso Cancellieri è esemplare: si va da Pippo Civati che, come un grillino qualunque, vorrebbe le dimissioni del ministro guardasigilli, a Enrico Letta, che ha invece scelto di difenderla sino in fondo, come peraltro fece con Alfano per la vicenda Kazaka. Lo stesso si potrebbe dire in merito alla legge di stabilità, dove è lo stesso segretario in scadenza, Epifani, a chiedere sostanziose modifiche a un premier che era sino a sei mesi fa il numero due del partito che oggi si trova pro tempore a guidare. Manco si trattasse di un governo “amico” alla Monti, cui domandare perentoriamente più investimenti e più giustizia sociale.



Ma sono soprattutto le fibrillazioni interne che rischiano di lasciare cicatrici profonde. Chiunque abbia ragione nella guerra dei numeri fra cuperliani e renziani, il risultato è lo stesso: chi si troverà a guidare il partito dopo le primarie dell’8 dicembre dovrà sudare sette camice per ricucire strappi ogni giorno più profondi.

Se i numeri corretti li danno gli uomini di Gianni Cuperlo, e cioè 49 segretari provinciali contro 35 renziani (e un solo civatiano), con oltre il 50% dei 260mila votanti a favore dei candidati vicini all’ex segretario della Fgci, fedelissimo di D’Alema, il rischio per Renzi è di trovarsi a governare un partito con una classe dirigente non allineata, se non addirittura ostile.



Il sindaco di Firenze, che rimane strafavorito per la vittoria finale, non pare preoccuparsene più di tanto. Ha già visto tanti salire sul suo carro, e sa che ne vedrà salire ancora. Quindi l’effetto bandwagon dovrebbe bastargli per indirizzare su una strada nuova il corpaccione del Pd, anche perché alla sua leadership sa bene che non esistono alternative in grado di garantire ragionevoli probabilità di vittoria elle elezioni. Per uno che ha più volte citato la storica radiocronaca in cui si coniò per Fausto Coppi l’espressione di “un uomo solo al comando”, tutte queste sono quisquilie.

Ciò che non è chiaro è se e come il partito seguirà quell’uomo solo al comando. Le polemiche sui brogli e sui tesseramenti gonfiati non lasciano esenti i rappresentanti locali renziani in parecchie circostanze, e autorizzano a nutrire qualche dubbio. Lecce, Trapani e Cosenza gli ultimi grani di un lungo rosario di contestazioni e di casi sospetti, con inspiegabili boom delle tessere. 

Del resto, la scelta di tenere il tesseramento aperto sino all’ultimo è stata caldeggiata proprio da Renzi e dai suoi, memori dei consensi sottratti un anno fa da un meccanismo troppo rigido.

Eppure – lo dicono in tanti ormai – quella scelta non ha funzionato, anzi ha fornito in troppi casi all’esterno l’immagine di un partito tutt’altro che cristallino. Esattamente il contrario di quello che Renzi ha promesso e di cui avrebbe bisogno. Eppure per Renzi ora non si può più intervenire, la macchina è lanciata e non si può fermare, forse perché fermarla vorrebbe dire rinviare l’appuntamento con le primarie, che – a giudizio del sindaco – costituiranno l’unica fonte di legittimazione del futuro segretario democratico. Persino se i numeri fossero a favore del sindaco di Firenze (47 a 38, secondo il suo comitato) i problemi non cambierebbero poi di molto e la sua leadership forte si troverebbe a farei conti con un Pd litigioso e diviso. 

Ma chi ha più da temere dalle fibrillazioni in casa democratica è senza dubbio il presidente del Consiglio. Se con l’aiuto dei moderati del Pdl Letta è convinto di riuscire a sopravvivere persino alla decadenza di Berlusconi, l’orizzonte si fa assai più fosco dopo l’8 dicembre. I rapporti fra i due sono altalenanti. Si passa da incontri da cui filtra la stipula di patti di convivenza di durata biennale (sino al 2015), a stilettate quotidiane rifilate dal primo cittadino fiorentino all’attuale inquilino di Palazzo Chigi.

Quando persino la commemorazione dell’alluvione di Firenze diventa l’occasione di attaccare le scelte della legge di stabilità in tema di fondi destinati alla difesa del suolo ed alla lotta al dissesto idrogeologico, allora è lecito pensare che dopo le primarie tutto potrebbe accadere. Anche che Renzi riesca laddove Berlusconi vorrebbe arrivare, ma forse senza avere i numeri per farlo, e cioè staccare la spina al governo.

Se si chiude la finestra elettorale di inizio anno, Renzi sa che per superiori ragioni europee (il semestre di presidenza italiana) dovrà aspettare un altro anno. E allora a Enrico Letta, indebolito dalla ormai quasi certa decadenza di Berlusconi, l’ombrello del Quirinale, sinora estremamente efficace, potrebbe non bastare più.