Quasi con un colpo di teatro il Governo è intervenuto con un decreto-legge sul tema del finanziamento dei partiti. L’esecutivo ha anticipato il Parlamento approvando un provvedimento che, sulla base di quanto oggi reso noto, recepisce sostanzialmente il testo del disegno di legge approvato lo scorso 16 ottobre dalla Camera dei deputati e attualmente all’esame del Senato. Non vi sarebbe compresa, perché vietato dai principi che delimitano la decretazione d’urgenza, soltanto la delega al Governo per il riordino della materia. Ma si tratta di una questione tutto sommato di natura tecnica e che, applicando una prassi talora invalsa, potrebbe essere agevolmente risolta con un emendamento in sede di conversione in legge.
Il provvedimento d’urgenza, in estrema sintesi, abolisce l’attuale disciplina che, in spregio alla volontà espressa nel referendum popolare del 1993, aveva sinora dissimulato sotto la voce del “rimborso” delle spese un vero e proprio finanziamento pubblico ai partiti e ai movimenti politici presenti nelle assemblee rappresentative.
Il fraudolento sviamento della volontà popolare in materia di finanziamento dei partiti è stato uno dei temi ricorrenti nella discussione pubblica sempre più conquistata dalle pulsioni della cosiddetta antipolitica. Abolire un sistema inviso ai cittadini è insomma un atto lodevole cui peraltro le stesse forze politiche sembravano ormai rassegnate, come era stato dimostrato dall’approvazione del testo in questione da parte della Camera. È tuttavia evidente che nessuna democrazia può funzionare senza partiti e che i partiti, per poter esistere, da qualcuno devono pur ricevere finanziamenti. Ed è evidente che questo problema non può essere eluso dal legislatore, ma al contrario va affrontato con nettezza se non si vuole subordinare la politica al sostegno oscuro e corrosivo di interessi per lo più occulti o devianti.
Così, la strada adesso imboccata è quella già seguita in altri ordinamenti in cui si favorisce fiscalmente il finanziamento privato che viene regolamentato in modo da garantirne trasparenza ed evitare improprie distorsioni. In tal senso si sono stabilite consistenti forme di agevolazione fiscale per le erogazioni liberali. Forse, in sede di conversione, si potrebbe integrare la disciplina del decreto-legge in modo da evitare eccessive sperequazioni nelle disponibilità finanziare, soprattutto in coincidenza con le campagne elettorali.
Al tempo stesso si è introdotta una nuova forma di finanziamento pubblico, stavolta collegata alla diretta indicazione dei contribuenti che decidano in sede di dichiarazione dei redditi di destinare a un determinato partito il 2 per mille della “propria” Irpef. In tal modo si è richiamato un sistema già previsto da una legge del 1997 (allora si trattava del 4 per mille), ma che poi era rimasto inattuato e quindi soppresso. È apprezzabile il fatto che per questa nuova tipologia di finanziamento siano previsti tetti massimi (che crescono progressivamente per i prossimi tre anni in corrispondenza alla progressiva riduzione dell’erogazione derivante dall’attuale meccanismo di finanziamento), e che l’attribuzione delle somme avvenga soltanto sulla base delle dichiarazioni espresse.
Se il Parlamento convertirà in legge tale provvedimento d’urgenza – e dato il contesto politico, economico-finanziario e sociale, questa eventualità appare fortemente probabile – nel prossimo futuro le parti politiche dovranno mutare in modo consistente i loro costumi sul fronte del finanziamento. Non dovranno accontentarsi di competere per accedere alle istituzioni rappresentative – unica condizione che è ora richiesta per usufruire del finanziamento pubblico – ma dovranno confrontarsi in modo concorrenziale per reperire le risorse che si rendono disponibili nel mondo degli interessi rappresentati.
La stessa forma del partito è destinata a mutare, spostandosi dall’asse della rendita di posizione in corrispondenza alla collocazione sull’orizzonte delle preferenze politiche dei cittadini votanti, a quello della concreta rispondenza a specifiche richieste di politiche pubbliche che provengono dai soggetti – singoli individui o realtà associate − che chiedono di vedere accolte le rispettive istanze. In breve, con l’adozione di questo canale di finanziamento il pluralismo partitico e il pluralismo sociale tenderanno a intrecciarsi in modo sempre più stringente, così producendosi, anche su questo fronte, uno degli esiti – peraltro piuttosto tardivo – del crollo degli schieramenti ideologici che erano alla base del nostro sistema partitico sino agli anni Ottanta del secolo scorso.
Circa poi la fonte di finanziamento costituita dal 2 per mille dell’Irpef, al di là delle possibili difficoltà di implementazione di tale metodo, anche in questo caso i partiti dovranno competere nella richiesta del consenso nel momento stesso in cui ciascuno definisce annualmente il proprio rapporto fiscale con lo Stato. Sul punto va rilevato che questo innovativo aspetto del finanziamento ai partiti potrebbe condurre a considerare con una qualche attenzione un fatto che nell’esperimento fallito del 1997 era di scarso rilievo, cioè la sempre più evidente non coincidenza tra la soggezione fiscale – che riguarda anche gli stranieri che vivono e operano nel territorio nazionale − e il vincolo di cittadinanza che connota il sistema della rappresentanza politica.
In ogni caso, i partiti saranno sottoposti a una sorta di sondaggio annualmente ripetuto sullo stato del rispettivo consenso popolare, seppure si tratterà di un sondaggio notevolmente post-datato in termini di conoscenza pubblica dei dati del consenso ottenuto rispetto al momento dell’indicazione da parte dei cittadini. In definitiva, la nuova normativa impone da subito ai partiti di prepararsi a questa sorta di doppia sfida: solo chi saprà affrontare queste due prove cruciali sia nei rapporti con il pluralismo sociale che nel momento essenziale dell’imposizione tributaria, potrà sopravvivere.
Qualche parola poi sul fatto che la disciplina introdotta con il decreto-legge comprende una sostanziosa e penetrante regolamentazione dei partiti politici, intendendosi così dare – finalmente, possiamo aggiungere − una prima attuazione al dettato dell’art. 49 Cost., e nello stesso tempo assicurando ai partiti quelle condizioni minime di democraticità interna che sinora in molti casi sono apparse assai evanescenti.
Su questo fronte il decreto-legge ricalca quanto già approvato dalla Camera; forse, sarebbe opportuno qualche approfondimento soprattutto circa la precisazione dei parametri normativi, degli strumenti e delle procedure di controllo. Il riferimento ad esempi ben rodati in altri ordinamenti potrebbe essere utile per arricchire opportunamente il testo.
Infine non si può sottacere, dal punto di vista dei rapporti tra organi costituzionali, l’accavallamento tra il procedimento legislativo ordinario che è destinato ormai ad arenarsi, e quello di conversione del decreto-legge oggi annunciato e che dovrà impegnare le Camere nei prossimi due mesi. Questa sovrapposizione non rappresenta certo un esempio di bon ton istituzionale. Il Governo si è giustificato sostenendo che l’immediata adozione del testo legislativo sarebbe giustificata dal fatto che un ritardo anche di pochi giorni avrebbe fatto slittare all’esercizio finanziario del 2015 l’avvio dell’applicazione del nuovo regime di finanziamento. Al di là della correttezza o meno di tale assunto, ciò che appare evidente è il senso politico-istituzionale del ricorso a questo provvedimento normativo che è dotato, come noto, di immediata efficacia.
La straordinarietà, l’urgenza e la necessità dell’intervento governativo sono in buona sostanza da rinvenirsi nel sentiero sempre più stretto che condiziona l’attuale momento: l’esigenza di dimostrare di agire concretamente e da subito sul fronte sulle riforme ha fatto premio sulla rispettosa attesa dei tempi richiesti dalla discussione in seno al Parlamento. In fin dei conti, anche questo decreto-legge è un’ulteriore prova della persistente condizione di debolezza istituzionale del Parlamento. Ciò che si può e si deve sperare è che i partiti trovino in questa disciplina il modo per rigenerarsi e così riproporsi davanti all’opinione pubblica nel loro essenziale ruolo all’interno del nostro sistema democratico. Un esperimento forse traumatico, ma ormai indispensabile.