Nei giorni scorsi alcuni esponenti politici hanno ripetutamente affermato essersi conclusa (o seppellita secondo un gergo non propriamente elegante) l’esperienza della Commissione per le riforme costituzionali.

Il Paese avrebbe bisogno di altro: della riforma della legge elettorale, dell’abolizione delle Province, di provvedimenti urgenti a sostegno dell’economia e del lavoro, vista la drammatica situazione acuita dalla protesta dei c.d. forconi. Al più, se proprio si volesse rimanere sul terreno delle riforme costituzionali, la questione più urgente sarebbe la riduzione del numero dei parlamentari. 



Il presidente Letta, per la verità, ha tentato di tenere più “alto” il livello della questione costituzionale e nel discorso dell’11 dicembre scorso alle Camere per la fiducia ha, invece, ribadito l’urgenza di proseguire sul terreno delle riforme costituzionali e di affrontar anche il tema del bicameralismo c.d. perfetto (per cui le Camere fanno le stesse identiche cose) e quello di un riequilibrio dei poteri tra Stato e Regioni, sia sul versante legislativo (togliendo alle regioni competenze legislative per cui esse non hanno la statura adeguata, quali l’energia, l’ambiente, le grandi reti di comunicazione…), sia sotto il profilo del loro ruolo rispetto agli altri enti territoriali, quali, ad esempio le Province.



Allo stesso modo anche il Presidente Napolitano ha cercato più volte di ribadire lo stesso concetto ed ha in qualche maniera sottolineato come il “sacrificio” della sua riconferma fosse transitorio, allo scopo di condurre il Paese verso le necessarie riforme costituzionali e istituzionali, prima fra tutte quella della legge elettorale.

Ora la sentenza della Corte costituzionale ha già in qualche misura fatto la riforma della legge elettorale: se non ci si accorderà in Parlamento su una nuova legge si andrà a votare con quella che risulta dalla incostituzionale dichiarata e cioè una legge proporzionale con voto di preferenza, sempre che la lettura delle motivazioni non modifichi quella che è la prima impressione.



Ora non v’è dubbio che legge elettorale e riduzione del numero dei parlamentari siano emergenze nelle emergenze. Tuttavia fermarsi ad esse ed accontentarsi del risultato, se mai lo si raggiungesse, sarebbe estremamente miope. 

Prendiamo la legge elettorale come esemplificazione.

Se guardiamo all’esperienza italiana è innegabile che il suo solo mutamento (1993-1995) non accompagnato da una riforma strutturale della forma di governo non ha risolto i problemi che affliggevano (e affliggono) il nostro Paese: instabilità dei governi, frammentazione partitica, disaffezione dei cittadini. La sola riforma della legge elettorale non ha sortito né stabilità delle istituzioni di governo, né tantomeno la loro efficienza. Dunque non è irragionevole immaginare che se le due riforme fossero contestuali, il rendimento delle stesse sarebbe migliore. Perlomeno l’esperienza nostrana questo ci suggerisce.

Il problema pertanto diventa: razionalizzazione della forma di governo parlamentare, semi-presidenzialismo o presidenzialismo? Non si può rispondere a questa domanda in maniera teorica, perché occorre tenere conto dell’“impatto” di tali riforme sull’attuale assetto costituzionale.  

Per tale motivo occorre prendere coscienza del fatto che una revisione della forma di governo diversa dal rafforzamento di quella parlamentare richiede un mutamento di contesto costituzionale (tutte le norme connesse ora al sistema proporzionale e che dovrebbero essere ricalibrate in funzione di contrappeso) che non è percorribile in questo quadro politico e di partiti.

In questo contesto è certamente auspicabile, invece, la riforma della legge elettorale unita al rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio dei ministri e ad una riforma del bicameralismo che renda più efficace l’azione di controllo politico del Parlamento.

Per tali motivi almeno queste tre riforme dovrebbero essere contestuali: Legge elettorale: uninominale a doppio turno di coalizione; rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio rispetto alla sua coalizione: fiducia personalizzata; bicameralismo: una sola camera politica di rappresentanza diretta di tutti i cittadini che è l’unica vera interfaccia del governo, dal punta di vista del controllo e dell’indirizzo politico e una Camere di rappresentanza (diretta) delle autonomie che probabilmente indurrebbe una ristrutturazione del sistema dei partiti ed una loro maggiore attenzione all’esigenze del “territorio”.

Certo, si può obiettare che questo Parlamento potrebbe non avere la forza di fare tutto ciò, avviando il percorso delle riforme costituzionali.

Anche qui l’esperienza ci viene in soccorso: è già successo che il Parlamento presa coscienza della distanza tra politica e società civile, abbia intrapreso coraggiosamente la strada del cambiamento, quando decise di modificare l’art. 68,  in tal modo consentendo l’avvio di processi penali nei confronti di quasi due terzi dei propri componenti.

Allora non vi è che una strada da ripercorrere: quella delle riforme costituzionali, le uniche che possono consentire  di avviare un progetto di lunga durata. La risposta alle emergenze non impedisce di guardare anche oltre. Se non si percorrerà tale strada è inevitabile che tra non molto i problemi torneranno a galla.

Allora: seppellire la Commissione per le riforme costituzionali o seppellire il Paese?