A che punto siamo con l’infelice storia della nostra Repubblica?
Il 27 novembre Berlusconi è stato dichiarato decaduto. Da Pdl sono nati Fi, che sta con il Cavaliere, e Ncd che si è formato sui governativi del centro-destra: Alfano, Quagliariello, Lupi.
Mario Mauro ha dato vita ad una piccola scissione da Monti e si stretto di più a Casini che è così riapparso in giro dopo il risultato elettorale poco esaltante del febbraio 2013.
Il 4 dicembre la Corte costituzionale comunicava che ha condannato il premio di maggioranza e la mancanza della preferenza del porcellum, ma affermava anche, non senza destare qualche stupore, che “Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali“.
Poi è arrivato l’8 dicembre e il popolo del Pd ha incoronato Renzi, che subito proclamava: nuova legge elettorale e patto con il Governo per poco più di un anno e poi il voto; una settimana dopo, al momento dell’incoronazione, Renzi sfida Grillo su legge elettorale, riforma del Senato e finanziamento ai partiti.
Il M5S ha chiesto il ripristino del mattarellum e il voto subito; al contempo sta restituendo una quota parte degli stipendi dei parlamentari: tra parte delle prebende e parte degli stipendi siamo a 4 miliardi. Gli altri stanno a guardare e si tengono ben stretti tutti i soldi, anche quelli del finanziamento pubblico.
Il Governo, sotto l’occhio vigile del presidente Napolitano che ammonisce e timona, non ha ancora ottenuto l’approvazione della legge di stabilità e i cittadini a gennaio 2014 dovranno pagare ancora la piccola Imu del 2013. Letta, con la sua calma non scossa neppure dalle proteste popolari e dalle condizioni delle carceri, mangia il panettone e dichiara che lo mangerà anche il prossimo anno.
Non sarà che spera molto di più di quanto è possibile? Comprendo la scaramanzia, ma se il capo del governo mangia il panettone il prossimo anno continuando a fare quanto ha fatto sinora, non è detto che lo mangeranno anche gli italiani. Nel frattempo Letta cambia quattro volte la tassazione sulla casa e sui servizi comunali, propone un riordino territoriale contro le province e le Regioni (veramente originale una Repubblica fatta di comuni e Stato), proclama il fallimento delle riforme costituzionali dopo avere perso cinque mesi dietro alla Commissione dei Saggi, e taglia il finanziamento pubblico a partire dal 2017 (sic!).
Intanto il debito pubblico sale e il Pil scende. Le stime di uscita dalla recessione si spostano al 2015.
Non è una fiaba, ma un incubo e da più parti si invoca la nuova legge elettorale: la vogliono Renzi, Berlusconi e Grillo, i tre leader che sono fuori dal Parlamento. Tutti dichiarano che non vogliono il voto subito, ma è difficile credergli, anche perché il Parlamento, nonostante quanto scriverà la Corte nella sentenza, è costituito in modo palesemente illegale.
L’interesse per un nuovo voto è forte e cresce giorno dopo giorno, non solo tra i politici, ma anche nella popolazione.
Renzi non è tagliato per fare il segretario di partito ed è evidente che vuole fare il presidente del Consiglio; Berlusconi cresce nei sondaggi per il malumore degli italiani verso il governo e la giustizia, e ancor di più il ritorno al voto è appetibile per Grillo che, dopo un momento di fiacca, ha ripreso vigore.
Il sistema politico italiano, a parte il partito degli indecisi, si va assestando in modo decisamente tripolare, ma i tre leader si ostinano a concepirlo in maniera bipolare. Sarà una resa dei conti.
Ma come deve essere la legge elettorale per non avere i difetti del porcellum e assicurare che il giorno dopo le elezioni – come chiede Renzi – si sappia chi ha vinto?
In democrazia, vince chi ottiene la maggioranza dei voti, cioè il 50 per cento + 1 dei voti. Si chiama principio di maggioranza. Se vi sono tre poli e una miriade di disperati politici, sarà praticamente impossibile che si superi di molto il 30 per cento dei voti. Dopo la sentenza della Corte è impossibile un premio che assicuri con il 30 per cento dei voti il 55 per cento dei seggi, sarebbe una palese violazione del giudicato costituzionale: un premio del 25 per cento è per sé abnorme politicamente e incostituzionale giuridicamente.
Anche la “legge dei sindaci” – come la chiama Renzi – non potrà assicurare una coerente formazione delle Camere o anche della sola Camera dei Deputati, ammesso pure che si riesca a sopprimere il Senato.
Inoltre, nessuno dei tre poli vuole permettere particolari vantaggi agli altri due poli, accettando una regola che per pochi voti potrebbe penalizzarlo tanto. Sono da escludere, perciò, secondi turni di ballottaggio per premi che siano più alti del 10 per cento dei seggi.
Neppure il ritorno al mattarellum, di per sé, potrebbe essere una soluzione. Sono noti i limiti delle leggi dell’agosto del 1993, manifestatesi nelle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001. Si badi che sono limiti derivati dal modo in cui le due coalizioni del tempo (Casa delle libertà e Ulivo) le hanno interpretate, e cioè grande ammucchiata per vincere, cedendo nella quota maggioritaria al ricatto dei partiti marginali, e permanente contestazione della coalizione nell’azione di governo: nel 1994 Berlusconi cade per colpa della Lega; nel 1998 Prodi cade per un voto-uno; tra il 2001 e il 2006 si succedono due governi Berlusconi.
L’interpretazione più corretta di quelle leggi avrebbe dovuto essere una competizione nella quota maggioritaria tra i grandi partiti, da soli, dunque con un no secco alla tentazione della grande ammucchiata; al tempo stesso la perdita di seggi determinata dai partiti marginali sarebbe reciproca e, perciò, indifferente. Proporzionale per tutti, ma sopra la soglia del 4%.
Quasi certamente in questo modo il sistema sarebbe in grado di offrire più governabilità, ma non è detto che, con un assetto politico tripolare, il governo possa essere retto da un solo partito. Sarebbero necessari (come in Germania) dei governi di coalizione, che sarebbero più omogenei con un partito grande e dei partiti piccoli di area, non in grado di avere un comportamento ricattatorio, e meno omogenei, nel caso di governi retti da due partiti grandi − le cosiddette “larghe intese”. Quest’ultima ipotesi appare più probabile ed è la conseguenza del principio che la legge elettorale non può dare quello che il sistema politico non promette.
Un governo di larghe intese è quello che abbiamo, ma senza programma e senza uomini di capacità.
Un nuovo governo di larghe intese, oltre a poggiare su un Parlamento legittimo, richiederebbe ai partiti uno stile di convivenza che sinora è mancato e uomini che si sappiano accordare per il bene del Paese, governando realmente e non aspettando che cali lo spread.
Sapranno Renzi, Berlusconi e Grillo (o almeno due dei tre) comportarsi conseguentemente subito dopo le elezioni che si terranno quanto prima?