Dato il florilegio, se non una vera e propria inflazione, dello pseudonimo Edmond Dantès sui giornali online, ho deciso di firmare i miei “pezzi” con un altro pseudonimo, quello del mio sventurato compagno di prigionia nel castello di If del golfo di Marsiglia, cioè l’abate Faria. Mi scuserà il lettore se, in questo scambio di pseudonimi, farò un poco di confusione, perché, pur firmandomi abate Faria, scriverò come Edmond Dantès, e parlerò diffusamente dell’abate.
Fatta questa premessa, devo avvertire che l’abate Faria non è affatto una compagnia allegra. Non solo per le condizioni in cui ci troviamo, ma perché l’abate è una presenza piuttosto cupa. Parla in modo roco e piuttosto apocalittico. Si esprime con un linguaggio che oscilla tra i versetti della Bibbia e le immagini dei romanzi di “cappa e spada”. È pettegolo e perentorio nei suoi giudizi negativi. A parte il fantastico segreto confessatomi sul tesoro nascosto sotto l’isola di Montecristo, si rivela come un impenitente menagramo e soprattutto un denigratore accanito dei costumi moderni. Nei giorni scorsi, dopo aver sorbito la “brodaglia spartana” del mattino propinataci dai carcerieri, ha cominciato a sparlare del nuovo leader del Partito democratico, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi.
L’abate sosteneva di averlo visto e conosciuto attraverso un suo particolare tubo catodico nelle cosiddette “primarie” del Pd. Insieme a lui parlavano un “folletto” inconsistente, un “battutista da cabaret”, tale Pippo Civati, e un triste tardo-bolscevico di nome Gianni Cuperlo, che gli aveva inoculato nel sangue ancora più tristezza di quella di cui è quotidianamente pervaso.
“Speravo in Renzi!”, ha quasi gridato l’abate, diventando un po’ più colorito sulle magre guance. Ma poi ha ammesso che si è dovuto ricredere per una serie di questioni.
Diceva l’abate che aveva ascoltato, sempre attraverso il suo tubo catodico, parlare il Renzi a lungo con una scioltezza da consumato attore del cosiddetto “tubo”. Ma diceva sempre le stesse cose con uno schematismo disarmante e con la velocità che il suo “tubo” richiede in omaggio alla cultura di questi tempi sventurati. Un elenco di problemi, gravi, che non si riesce bene a comprendere come si possano risolvere. Faria continuava a chiedersi se il popolare Matteo fosse un seguace di Lord John Maynard Keynes oppure dell’iper-liberista Friedrich von Hayek. Insomma, i conti non gli tornavano. Era positivo che dopo circa 25 anni, finalmente, anche la vecchia sinistra italiana, erede dei comunisti, cioè quella che stava a Est, non avesse un leader che era stato iscritto al Pci (anche in Italia è caduto finalmente il Muro di Berlino!), ma quello che non convinceva Faria era soprattutto quel farfugliamento su “rottamazione”, costi della politica e marketing basato scrupolosamente sull’esempio da propagandare, con un tono moralistico vagamente disincantato.
Insomma, concludeva Faria, questo Matteo Renzi vuole risolvere i tristissimi problemi economici italiani con ricette di economia sociale di mercato, con terapie keynesiane oppure con gli schemi dei neoliberisti che hanno riscoperto le teorie in voga prima del 1929? L’impressione, aggiungeva l’abate, è che si ispiri alle ditte editoriali “Stella&Rizzo” e ai consigli dell’implacabile giustizialista Marco Travaglio.
Ma lo scoramento dell’abate Faria diventava ancora più intenso, quando, per dare un esempio, Renzi aveva convocato la sua prima segreteria di partito al mattino, alle 7 e 30. Qui Faria ha divagato prima sui vagotonici, sui distonici e sui depressi cronici, poi è sbottato una prima volta dicendo: “Ma siamo sicuri che qualcuno non dormisse durante la riunione?”. Poi è letteralmente esploso di sdegno, sostenendo che “È vero che il mattino ha l’oro in bocca”, ma quello che serve è soprattutto la lucidità e la decisione, non la demagogia dell’immagine lanciata per etere, che conosceva bene anche Benito Mussolini: “Canta il gallo, Mussolini è già a cavallo”, si diceva durante il regime.
Alla fine l’abate si è lanciato come un fulmine vicino al pagliericcio della cella di If, dove giace per riposarsi e ha esibito due libroni. Il primo si intitolava “Diari di guerra” 1943-1945 dell’allora ministro plenipotenziario britannico Harold Macmillan. Quel grande statista era un devoto del vincitore di Hitler, Winston Churchill, ma nel suo diario si lamentava un poco del comportamento del suo leader. Alla Conferenza di Casablanca (14-24 gennaio 1943), Churchill si incontra con il presidente americano Frank Delano Roosevelt per stabilire il piano di attacco finale alla Germania hitleriana. Macmillan spiega la vita in quel tempo di Churchill e anche di Roosevelt, rispettivamente soprannominati “imperatore d’Oriente” e “imperatore d’Occidente”. Scrive Macmillan: “I due ‘imperatori’ erano soliti incontrasi a sera inoltrata; se la spassavano insieme discutendo con i generali dei loro paesi e con quelli del paese amico”. Parlando delle vita che conduceva Churchill, Macmillan commentava: “La sua curiosa abitudine di passare la maggior parte della giornata a letto e di stare alzato tutta la notte rendeva la vita un po’ faticosa ai suoi collaboratori”; un garbato modo inglese per lamentarsi.
Macmillan insisteva: “Non l’ho mai visto in forma migliore: mangiava e beveva molto, in continuazione, risolveva problemi ardui e gravosi, giocava a bigliardino e a bìzzica per un’ora e, insomma, si divertiva”. Pare anche che il primo ministro guardasse con un certo interesse le “curve” delle signore e non lesinasse commenti e pizzicotti. Del resto era figlio del grande Sir Randolph, eminente statista, ma anche disinvolto donnaiolo, dato che contrasse la lue nell’Estremo Oriente e per questa ragion morì ancora giovane. Fatto che forse oggi in Italia, per l’obbligatorietà dell’azione penale, avrebbe forse indotto qualche pubblico ministero a mandare un avviso di garanzia a Sir Randolph.
Si sapeva che lo stile di Winston Churchill era piuttosto disinvolto. Quando nel maggio del 1941 quello squinternato di Rudolph Hess fuggì con un aereo dalla Germania e atterrò nella tenuta del Duca di Hamilton in Scozia, per ragioni tuttora inspiegabili, Churchill fu subito avvertito mentre era a Downing Street. La sua reazione e il suo commento furono lapidari: “Mi state dicendo che il numero 2 del nazismo è fuggito dalla Germania ed è arrivato qui? Va bene, vedremo, ma ne riparliamo domani mattina, perché stasera devo guardare l’ultimo film dei fratelli Marx”.
L’abate Faria, dopo aver ricordato, ha commentato: altro che sette di mattino, altro che esempi di efficienza, di scattismo e di vita salutista. Eppure Churchill ha sconfitto Hitler.
L’abate Faria ha bofonchiato a un certo punto anche un esempio calcistico. Gli avevano detto che Omar Sivori, un argentino, un “angelo dalla faccia sporca”, dormiva quasi tutto il giorno, si allenava poco, fumava quaranta “americane” senza filtro al giorno. Anche mentre andava sul pulman allo stadio per giocare, lui dormiva. Quando qualcuno glielo fece notare, rispose seccamente: “Io dormo sempre fuori dal campo, mentre ce ne sono molti che dormono soprattutto mentre si gioca in campo”. Nessuno ebbe più il coraggio di contestargli anche la sigaretta mentre indossava la maglietta della Juve e quella che fumava, a partita finita, anche sotto la doccia”. Perché? Perché, come scriveva Gianni Brera, “quel cabezon è capace di marcare gol anche con le orecchie”.
Ma l’abate Faria doveva mostrare anche il secondo grande volume nascosto nel suo pagliericcio. Un altro diario, “Gli anni di Mosca 1934-1945”, di Georgi Dimitrov, il bulgaro comunista protagonista del processo di Lipsia e assolto per l’incendio del Reichstag, grande segretario generale del Komintern. Nella notte tra il 3 e 4 marzo del 1944, Ercoli, cioè Palmiro Togliatti, venne sbattuto giù dal letto e convocato da Stalin, presente Molotov. Togliatti aspettava da mesi questa convocazione, che non arrivava mai. Certo, non si aspettava che arrivasse di notte, ma Stalin si era svegliato, tanto per cambiare, alle 11 di sera.
Qui l’abate Faria ha un cero imbarazzo: certo Stalin non è un esempio da imitare, ma di politica ne masticava abbastanza. In tutti i casi, in quella circostanza, Stalin dettò a Togliatti niente meno che la famosa “Svolta di Salerno”, quella di cui i comunisti italiani vanno tanto fieri (come esempio di un comunismo tutto italiano), ma che non hanno affatto elaborato. Che cosa disse Stalin a Ercoli? Ecco cosa scrive Dimitrov: “Nella fase data, non esigere l’immediata abdicazione del re; i comunisti possono entrare nel governo Badoglio; bisogna concentrare i propri sforzi soprattutto nella creazione e nel consolidamento della unità nella lotta contro i tedeschi”.
Togliatti e il Pci la eseguirono e se ne appropriarono falsamente la paternità. È un passaggio importante della vita del Pci che Renzi, anche se non è mai stato comunista, dovrebbe conoscere per rispetto verso una parte del suo partito. E il tutto avvenne di notte.
Ora, mi ha detto l’abate Faria, prima di abbattersi sul proprio pagliericcio, con i due libroni: “Se il mattino ha l’oro in bocca, la notte porta consiglio”. L’unica speranza è che questo Renzi se ne ricordi.
(Abate Faria)