La questione della legge elettorale, dopo l’annuncio della decisione della Corte costituzionale, è ormai il versante decisivo di questa legislatura. I prossimi mesi ci diranno se l’accordo sarà trovato o meno. In ogni caso, chi lavora per il fallimento di ogni intesa e intende alzare la posta ad ogni giro di tavolo, è ben consapevole che le carte andranno necessariamente scoperte quando arriverà la sentenza sul Porcellum. Infatti, per quanto il compito sia tecnicamente arduo, la Corte non potrà sottrarsi a un impegno imprescindibile: stendere una sentenza che produca un meccanismo elettorale comunque autosufficiente. Infatti, per rispettare il fondamentalissimo principio della necessaria continuità istituzionale degli organi costituzionalmente necessari, dovrà trattarsi di una sentenza “autoapplicativa”, che assicuri, cioè, un sistema elettorale di salvaguardia cui ricorrere in caso di scioglimento anticipato. 



In breve, per entrambe le Camere si tratterà di un sistema proporzionale senza premio di maggioranza, ma con consistenti soglie di sbarramento, e con almeno una preferenza. Su quest’ultimo aspetto molti attendono al varco la Corte, dato che essa non può inventare a suo piacimento una qualsivoglia disciplina, ma deve necessariamente trarla dalla normativa vigente conforme al dettato costituzionale. A tal proposito, si può ipotizzare il ricorso a quanto adesso già previsto per il voto espresso dai cittadini italiani iscritti alla Circoscrizione estero, dove per l’appunto vi è possibilità di una preferenza, risultando l’ordine dei candidati dalla cifra elettorale individuale, cioè dalle preferenze ottenute da ciascuno di essi. 



Dopo la sentenza della Corte, la minaccia della crisi di governo sarà un’arma affilatissima per chi riterrà di poter trarre profitto dal sistema proporzionale inaspettatamente ritrovato; ma, nello stesso tempo, sarà un’arma spuntata per chi considererà invece indispensabile – per la sua sopravvivenza o vittoria politica – l’introduzione di correttivi o di sistemi improntati a criteri maggioritari. 

E allora la sfida di questi giorni sul sistema elettorale preferibile non è soltanto preliminare rispetto alla fase decisiva che si aprirà una volta resa nota la sentenza della Corte. Adesso, infatti, si affilano le armi della propaganda per preparare il terreno culturale e ideologico ove innestare la propria bandiera nella competizione per il sistema elettorale del futuro. 



Le posizioni che si presentano nella discussione pubblica, ripercorrono le tradizionali appartenenze che ormai da lungo tempo connotano gli schieramenti all’interno delle classi dirigenti del Paese: da un lato i “proporzionalisti”, che vedono nella rappresentanza il crogiuolo del processo decisionale rispettoso dei principi democratici; dall’altro lato i “maggioritaristi”, che insistono sulla governabilità come leva indispensabile del governo democratico della collettività. In ciascun campo esistono poi tante possibili sfumature quante sono le varianti astrattamente immaginabili di ciascun sistema elettorale. 

A ben vedere, però, nessuno dei due schieramenti può avere dalla sua parte la Costituzione. In positivo la Costituzione, sui sistemi elettorali, dice ben poco, avendo lasciato al legislatore ordinario la scelta del meccanismo di traduzione dei voti in seggi. Dalla Costituzione è invece ricavabile qualcosa in più “in negativo”, nel senso che le leggi elettorali  devono rispettare – e questo sarà l’oggetto proprio dell’imminente sentenza della Corte – alcuni principi e diritti garantiti dalla Costituzione, come il principio democratico, e, ancor più in generale, il principio di eguaglianza e ragionevolezza, e il diritto di voto (eguale, personale, libero e segreto) di ogni cittadino. Entro questi confini, dunque, sono costituzionalmente ammissibili sistemi elettorali sia proporzionali che maggioritari.  

E allora la decisione sul sistema elettorale da introdurre al posto del ritrovato proporzionale, non può che essere concretamente rimessa alle scelte discrezionali delle forze presenti in Parlamento. Al di là dei propositi espressi pubblicamente, tali scelte sono condizionate, come è inevitabile, dagli interessi di parte, e soprattutto dalla contingente collocazione nell’orizzonte politico e dalle prospettive di acquisizione del consenso dei votanti. In ogni caso, l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato che la torsione in senso maggioritario del sistema elettorale, soprattutto ad opera del Porcellum, non ha prodotto un assetto di governo stabile, efficiente e responsabile proprio in ragione del fatto che non è stata accompagnata da una corrispondente riforma costituzionale. Il sistema ha dovuto trovare correttivi interni alla disciplina costituzionale vigente, sicché ne sono derivate dinamiche evolutive – come ad esempio quella inerente al rafforzato ruolo del Presidente della Repubblica – che hanno suscitato a loro volta problemi di coerenza con la forma di governo prescritta dalla Costituzione.

In altri termini, se si intende seguire la stessa strada e riproporre nuove ed aggiornate formule volte ad imprimere una qualche personalizzazione e verticalizzazione del sistema di governo delle istituzioni nazionali, a somiglianza di quanto avvenuto a livello regionale e locale, appare necessario modificare il quadro costituzionale anche in termini di contrappesi e garanzie. In caso contrario, la sola riforma elettorale ben difficilmente potrebbe consentire esiti apprezzabili e consistenti, e soprattutto capaci di resistere ai sempre possibili mutamenti del quadro partitico. Riforma della Costituzione e riforma elettorale, insomma, sono strettamente legate ciascuna all’altra. Tanto più che i processi di integrazione europea richiedono meccanismi efficienti di individuazione delle posizioni di vertice dell’ordinamento nazionale. Come noto, infatti, la debolezza dei nostri governi, per quanto talora velata dalla forza o dall’autorevolezza personale dei titolari dell’esecutivo, ha danneggiato in modo evidente gli interessi nazionali. La nostra democrazia è rimasta, come si diceva già negli anni Ottanta, quella de “l’impuissance“.  

L’attuale condizione delle forze politiche sembra però non consentire di pervenire in tempi ragionevolmente brevi a riforme costituzionali di un qualche rilievo: la crescente litigiosità dei partiti e tra i partiti, la rilevante presenza di una forza politica (il Movimento 5 Stelle) fortemente critica verso gli altri partiti, e il diffuso senso di sfiducia nei confronti dell’attuale personale politico-parlamentare, non costituiscono buone premesse per chi intende trovare i necessari punti di consenso. Tanto più che, fallito il percorso riformatore avviato con il comitato dei saggi, le proposte di riforma costituzionale dovranno seguire la strada ordinaria dell’art. 138 Cost. con il rischio, qualora non si raggiunga la maggioranza dei due terzi in Parlamento, di dover affrontare il referendum popolare innanzi a un’opinione pubblica certo non ben predisposta.  E i recenti comportamenti del Governo e del Parlamento hanno accresciuto i sentimenti di freddezza, se non di contrarietà, rispetto alle riforme che si stanno approntando in questi giorni. Basta qui ricordare i numerosi dubbi sollevati da più parti (ivi compresa la Corte dei Conti) sulla coerenza, efficacia e razionalità delle soluzioni adottate nel disegno di legge sulle Province e Città metropolitane approvato in prima battuta dalla Camera; e le critiche rivolte alla non immediata decorrenza degli effetti del decreto legge sui finanziamenti pubblici ai partiti. 

È evidente che mentre i “proporzionalisti” spingono per evitare riforme costituzionali che modifichino l’attuale forma di governo parlamentare, i “maggioritaristi” si dividono tra chi si limita a suggerire interventi di ingegneria elettorale a Costituzione vigente e chi invece propone di incidere su aspetti fondamentali della forma di governo. Ad oggi, sembrano prevalere le istanze anti-proporzionalistiche, ma i punti di disaccordo sia all’interno delle forze politiche che sostengono l’esecutivo Letta, che tra quelle ora all’opposizione, appaiono piuttosto consistenti. Se non si troverà nessun accordo, il sistema proporzionale risultante dalla sentenza della Corte costituzionale potrebbe diventare una scialuppa di salvataggio per l’intero sistema: il Parlamento da subito avrebbe modo di rigenerarsi, e i partiti sarebbero chiamati a trovare nuova e piena legittimazione nel consenso popolare. 

A chi teme questa strada, perché la legge proporzionale produrrebbe ulteriore frantumazione nel quadro partito, indurrebbe più facilmente a comportamenti illeciti o di malcostume, e spingerebbe i candidati a ricercare i finanziamenti dei gruppi di pressione, può rispondersi che né il Mattarellum, né la torsione maggioritaria del Porcellum hanno certamente ridotto o tanto meno precluso tali esiti. Molto dipende, infatti, dalla cosiddetta normativa di contorno rispetto alla legge elettorale (quella cioè in materia di finanziamenti, di propaganda e campagna elettorale, di disciplina dei gruppi parlamentari, e così via) e dagli strumenti posti a disposizione degli apparati di controllo.

Le soglie di sbarramento, poi, costituiscono un deterrente significativo che non era presente nelle leggi elettorali proporzionali che sono state applicate nel corso della cosiddetta prima Repubblica. La possibilità di esprimere una sola preferenza, infine, impedisce la formazione delle cordate di candidature contro le quali era stato proposto con successo il referendum abrogativo del 1991. 

In ogni caso, qualunque sia la scelta su cui si indirizzeranno conclusivamente le forze politiche, va detto che in una situazione come l’attuale, caratterizzata da una grave debolezza dei corpi rappresentativi e da una persistente sfiducia degli elettori nei confronti dei parlamentari, è necessario un sistema elettorale semplice e la cui logica essenziale sia chiaramente comprensibile dai cittadini. Soprattutto, occorre assicurare la diretta e immediata derivazione della rappresentanza politica dalla volontà popolare, e ridurre al minimo le superfetazioni e le correzioni distorsive che allontanerebbero ulteriormente i rappresentanti dai rappresentati. Per il momento, insomma, è preferibile accantonare le alchimie dell’ingegneria elettorale.

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