Niente cresce se non si è prima seminato. È per questa ovvia considerazione che il tema delle riforme costituzionali ha assunto il taglio che oggi lo contraddistingue e che è stato ben sintetizzato dal vicepremier Alfano: bipolarismo, scelta diretta dei parlamentari da parte dei cittadini, premio di maggioranza che assicuri la governabilità, superamento del bicameralismo e Senato a vocazione regionale. 



Su questi punti sembra essersi creata – per amore (al bene del Paese) o per forza (vedi l’intervento della Corte costituzionale) – una certa convergenza da parte del sistema politico nel suo insieme il quale, certamente, tende a distinguersi al suo interno quanto alle vie da percorrere, ma che si muove ormai su un binario ed in una direzione unitaria. 



La Commissione per le riforme costituzionali, che ha concluso i suoi lavori a settembre senza troppo clamore, è stata l’incubatore di questo sostanziale consenso; essa non ha inventato nulla ma, tramite un intenso lavoro di analisi delle problematiche costituzionali attuali e di discussione sui possibili rimedi, ha posto le condizioni per far convergere una parte significativa dei partiti e dei parlamentari su alcune idee di fondo. I grandi capitoli su cui si è lavorato sono quelli che oggi sono alla ribalta: bicameralismo, regioni, governabilità – che è lo scopo ultimo da perseguire, il fil rouge di tutto il dibattito. 



Non ingannino, pertanto, le diatribe in atto sulla legge elettorale: le scelte neocostituenti rimangono il vero tema, essendo noto che i limiti del nostro sistema istituzionale non possono essere risolti con una legge per quanto importante quale è la legge elettorale; la seconda repubblica è stata in questo senso illuminante e si è dimostrata, se ce ne fosse stato bisogno, una esperienza da non ripetere. Il male italico è profondo ed è lì che il bisturi deve affondare. 

I temi evocati da Alfano mostrano – come si era già visto in Commissione – che tutto si tiene: se occorre un premier che abbia in sede europea gli stessi poteri dei suoi colleghi tedesco olandese e spagnolo (secondo quanto detto dal Presidente Violante il 24 dicembre su queste pagine) occorre che la sua nomina sia riconducibile alla volontà popolare e che non siano i partiti, una volta accaparratisi i seggi parlamentari, a farla da padroni, facendo e disfacendo governi, gruppi parlamentari e coalizioni. Questo scopo lo si ottiene in prima battuta con il doppio turno (su cui il consenso non manca) ma poi servono poteri efficaci che garantiscano una leadership reale, che duri nel tempo e non solo una investitura, per popolare che sia. È cruciale infatti che vi sia un cruscotto di governo, che possa guidare la macchina sia politica sia amministrativa.

Ma allora occorre che il Parlamento, prima di rivendicare poteri di veto, sia in grado di riguadagnare autorevolezza e capacità di partecipare con competenza alla realizzazione dell’indirizzo politico: a tal fine non basterà una riforma costituzionale, che pure costituisce il primo passo (meno parlamentari che potrebbero aiutare ad avere gruppi più compatti e partecipazione delle classi politiche regionali alla produzione legislativa nazionale per le materie che poi esse dovranno amministrare); occorre invece riqualificare la classe politica con l’inserimento di personalità competenti ed affidabili, scelte tramite i meccanismi della preferenza, che non è la panacea ma che può certamente dare indirizzi e stimoli di miglioramento. 

E, pertanto, le diagnosi sono fatte e gli strumenti per rimediare sono stati ampiamente messi sul tappeto. Occorre adesso che il governo (con o senza appoggi esterni – ma, ovviamente, meglio se con) presenti il proprio progetto di riforma insieme alla legge elettorale; non avrebbe senso infatti discettare su come votare per i due rami del Parlamento quando si sa che, presto o tardi, uno dei due dovrà essere modificato e l’altro in parte ridimensionato, almeno in termini numerici.