Il Partito democratico è oggi l’unico vero partito tradizionale ancora in vita, in grado di celebrare congressi, sviluppare discussioni, produrre leaders. Ovviamente non si possono ignorare i tesseramenti gonfiati e l’accanimento mediatico pro Renzi, entrambi espressivi di un problema più profondo: l’esangue vitalità della base del partito, che si accende solo a tratti e che è spesso latitante. Resta però il fatto che il Pd è l’unico partito vero ancora in circolazione. La scommessa, oggi, è se e come sopravviverà al ricambio generazionale e all’elezione di un segretario che, chiunque sia, non appartiene al vecchio gruppo dirigente, anche se ovviamente sotto questo profilo Cuperlo, Renzi o Civati non sono equivalenti. 



Il vecchio gruppo dirigente aveva certamente molto limiti ma anche indubbie capacità. E in molti casi le seconde rappresentavano l’altra faccia dei primi. Questo gruppo dirigente infatti veniva in gran parte dal Pci e dopo il 1989 ha evitato clamorosamente una doverosa autocritica. Ma questa scelta ha permesso di tenere uniti i militanti, anch’essi poco desiderosi di compiere scomode autocritiche. I Veltroni e i D’Alema hanno spesso litigato tra loro, senza però che fosse sempre chiaro quali divergenze politiche li distinguessero o li contrapponessero. Ma proprio la prevalenza dei conflitti personali sugli scontri politici ha permesso di salvare una continuità biografica in cui i gli elettori di sinistra sentivano un grande bisogni dopo l’amaro tramonto della “grande illusione”. Gli ex giovani della Fgci, inoltre, hanno continuato a fare soprattutto il mestiere per loro più congeniale, quello dell’opposizione, cui erano stati formati dai loro padri comunisti. E anche in questo modo hanno interpretato un mondo di sinistra che voleva tenersi stretti miti e speranze a rischio di dissoluzione in caso di prolungato impatto con la realtà. Tutto ciò ha permesso di conservare anche il nucleo più importante dell’eredità comunista: quel senso di compattezza e di disciplina che scaturisce dall’intreccio inestricabile di inaccettabili radici vetero-leniniste e di un encomiabile patrimonio di serietà.



La singolare vicenda del gruppo dirigente ex comunista sopravvissuto a tutte le leggi (apparenti) della storia è a suo modo rivelatore di quella storia (vera) che non abbiamo il coraggio di guardare in faccia. Il più importante nucleo dell’opposizione a Berlusconi non è riuscito a rappresentare una valida alternativa al berlusconismo perché entrambi hanno interpretato la stessa fondamentale scelta politica: quella del non governo. Berlusconi lo ha fatto, rivestendo spesso i panni del premier ma nascondendo un sostanziale immobilismo dietro i fuochi d’artificio delle polemiche contro la magistratura e delle leggi ad personam, mentre i suoi oppositori ex comunisti lo facevano occupando prevalentemente i banchi dell’opposizione e nascondendo una sostanziale carenza di proposte forti dietro sobrietà e buon senso. 



Non sono modalità equivalenti e la differenza non è irrilevante. Ma c’ è un risultato drammatico di cui entrambi sono responsabili, seppure non allo stesso modo: il declino italiano che non accenna a finire.

Come spesso accade, anche in questo caso la verità viene è stata raccontata attraverso la finzione del romanzo. Lo ha fatto qualche anni fa Paolo Di Paolo, raccontando il berlusconismo attraverso la metafora della scomparsa di quello che oggi qualcuno chiamerebbe il genitore 2 e descrivendo la vita di una famiglia dopo l’incomprensibile allontanamento della madre. Dove eravate tutti? racconta di un lungo 8 settembre che si è prolungato per vent’anni o, in altri termini, di una prolungata fuga dalle responsabilità della generazione che era già adulta l’11 novembre 1989 quando è caduto il muro di Berlino.  Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, invece, descrive come è stato possibile stare dalla parte di Berlinguer anche quando per governare bisognava raccogliere le sfide lanciate da Craxi. Non che le ragioni etiche rappresentate da Berlinguer fossero senza valore, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà significava accettare una irresponsabile lacerazione tra etica e politica. Ma proprio tale lacerazione si è innestata negli anni ottanta ed è proseguita a sinistra anche nei due decenni successivi.            

Oggi, il Pd volta pagina. Cuperlo, Renzi e Civati non sono leader inconsistenti e, in modi diversi, esprimono verità non banali. Ma saranno in grado di conciliare la rottura – se ci sarà fino in fondo – con un gruppo “non più comunista ma ancora comunista” e la sopravvivenza di un partito che deve molto a quel gruppo dirigente?  E, soprattutto, il partito da loro guidato – post-comunista o radicalmente diverso – sarà in grado di vincere la scommessa che finora tutti hanno perso, quella di conciliare ricerca di consensi e capacità di governo? Finora nessuno dei tre ha spiegato se e come intende farlo. Ma “domani è un altro giorno”, diceva Rossella O’Hara alla fine di Via col Vento, ed è auspicabile che il vincitore delle primarie del Pd riesca nella difficile impresa di governare l’Italia affrontando anche, come raccomanda papa Francesco, i processi di globalizzazione in cui tutti siamo coinvolti.