Finora ci si era fermati alla mezz’asta. Con il voto delle primarie, è arrivato il passo successivo e definitivo: la Lega ha proceduto all’ammaina-Bossi, chiudendo così una stagione ultraventennale, decisamente fallimentare in rapporto agli obiettivi che il movimento si era posto alla nascita. La secessione resta uno slogan da scandire nelle scampagnate di Pontida o nei fine settimana di Venezia. Il federalismo non è mai nato, anzi il centralismo dell’odiata Roma è più pervicace che mai. Neppure la variante minima, un po’ di autonomia, ha mai visto la luce: l’unico vero atto in questo senso restano i vecchi decreti Bassanini, per il resto lo Stato fa quel che vuole e prende i Comuni a pesci in faccia, riducendoli a proprio bancomat e finendo così per mettere i cittadini contro i loro sindaci. Anche la tanto decantata macroregione del Nord rimane per ora una chimera: la Lega ha i presidenti delle tre grandi regioni settentrionali, ma non sembra in grado di spendere politicamente questa posizione; quello del Piemonte, poi, è più popolare tra i magistrati che tra gli elettori.
Anche le prime dichiarazioni del neo segretario Matteo Salvini non paiono aprire grandi prospettive di riuscire a incidere davvero sulla stantìa politica italiana, cioè lo scopo con cui la Lega era nata. La linea da lui espressa è chiaramente in sintonia con quella dei tanti partiti populisti e antieuropeisti che, pur con matrici diverse, sono sbocciati un po’ in tutta l’Unione: li unifica la scelta di cavalcare le paure e le proteste, che pagherà certamente in termini elettorali alle elezioni della prossima primavera per il nuovo Parlamento di Strasburgo; ma che non produrrà risultati concreti, se non quello di far rifluire parte delle scelte nei singoli Parlamenti nazionali. E conoscendo quello italiano, non c’è da stare allegri. Bisognerà anche vedere quale politica di alleanze sceglierà di coltivare il Carroccio; e soprattutto, con chiunque le stringa, quanto sarà in grado di incidere, col suo magro 4 per cento attuale. Certo, è una percentuale che nella prima Repubblica consentiva ai partitini di condizionare i governi; ma quello era un altro ceto politico, dove nessun repubblicano o socialdemocratico o liberale si sarebbe mai sognato di avallare in aula le balordaggini personali del premier, compresa quella di spacciare per nipote di Mubarak una spregiudicata ragazzotta del giro delle allegre comari di Arcore.
E tuttavia, un qualche segnale di novità va colto, a partire dal fatto che per la prima volta dalle origini gli iscritti alla Lega hanno potuto manifestare la loro volontà, dopo l’ininterrotta sequenza dei diktat di Bossi. Certo, il passaggio non è ancora compiuto: nel congresso di domenica prossima, Salvini dovrà ottenere almeno il 50 per cento dei voti dell’assemblea (ma non ci sono dubbi), altrimenti resterà in carica un anno e mezzo invece di tre; e sarà il direttivo a stabilire le regole del congresso, il giorno prima… Non il massimo della democrazia, ma quanto a questo il Carroccio è in prima elementare, dove l’ha tenuto a lungo il suo ormai decaduto leader.
Dietro a questo cambio della guardia ingessato ci sono comunque movimenti per ora sommersi, ma da seguire: è prevalsa la decisione di non andare allo scontro, più che con Bossi, con i bossiani duri e puri, per non aprire una lunga stagione di guerriglia interna. In tal senso, sottotraccia si sta consolidando un asse trasversale lombardo-veneto che punta a dare al partito una gestione condivisa, togliendo spazio ai personalismi vecchi (Bossi) e nuovi (Tosi). E a creare le premesse perché possa crescere una nuova classe dirigente.
Resta da dire dell’Umberto furioso, che esce ingloriosamente di scena: ha voluto misurarsi, e non ha raccolto l’adesione neanche di due iscritti su dieci. Salvini gli vuole salvaguardare l’immagine, come si è visto dalle dichiarazioni a caldo dopo la vittoria. Ma lo show-down è di tutta evidenza: imitando il suo ex acerrimo nemico e poi fedele alleato Berlusconi, anche Bossi non ha saputo capire quand’era il momento di andarsene a testa alta e con dignità; oggi lo fa nel peggiore dei modi. Entrambi hanno del resto illustri precedenti, perché molte delle élites al tramonto si rivelano sorde e cieche. Come Luigi XVI, che la sera del 14 luglio 1789, nel suo diario, scrisse una secca annotazione: “Rien”, niente. Poche ore prima, i francesi avevano preso la Bastiglia. Ed era iniziata una rivoluzione. Anzi, la Rivoluzione.