La misura della sfida culturale lanciata al Pd si evidenzia già nell’esergo della mozione congressuale di Matteo Renzi, intitolata “Cambiare verso”. Si tratta di una splendida citazione, tratta da Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti il 9 aprile del 1945 nel carcere di Flossenbürg, a metà tra Norimberga e Praga: “Essendo il tempo il bene più prezioso che ci sia dato, perché il meno recuperabile, ogni volta che ci voltiamo indietro a guardare ci rende inquieti l’idea del tempo eventualmente perduto. Perduto sarebbe il tempo in cui non avessimo vissuto da uomini, non avessimo fatto esperienze, imparato, operato, goduto e sofferto. Tempo perduto è il tempo non riempito, vuoto”.



Difficile immaginare parole simili sulla bocca di Togliatti o di D’Alema. Il tono etico-esistenziale sottolinea l’estraneità del percorso intellettuale e politico di Matteo Renzi al pensiero storico della sinistra, quella di Gramsci, Togliatti, Berlinguer e… D’Alema. A partire dall’esperienza con gli scout cattolici alla tesi di laurea su La Pira, Renzi si colloca nel filone del pensiero politico cristiano, che ha ispirato solo una piccola parte della sinistra democristiana, quella fiorentina di Nicola Pistelli, assessore di La Pira, schiantatosi tragicamente in auto a 35 anni nel 1965. Con Lapo Pistelli, figlio di Nicola, Matteo Renzi ha mantenuto frequentazioni politiche e culturali, in nome di un lapirismo pragmatico, sgombro di ogni profetismo, ma ben radicato dentro la tradizione dell’impegno politico cattolico.



Lo scandalo di Renzi è tutto qui: aver avuto l’impudenza di lanciare un’Opa sul vecchio Pci-Pds-Ds-Pd, muovendo dall’esterno della sua tradizione culturale e politica. Mentre i sondaggi confermano che l’elettorato Pd è disponibile al mutamento di paradigma, più incerto appare l’universo degli iscritti e più lacerato il gruppo dirigente. Moriremo democristiani? Un Berlusconi di sinistra? Questi gli interrogativi polemici e provocatori posti da dentro e nei dintorni del Pd.

Un’Opa audace, che taglia fuori anche quella parte di ex-democristiani, da Marini a Fioroni a Rosy Bindi, che si erano tranquillamente insediati in una cappella laterale della vecchia cattedrale della sinistra, officiandovi i riti di potere ereditati dalla tradizione liturgica democristiana. Nonostante le bordate di D’Alema sulla volgarità della rottamazione e di Marini sull’eccessiva fretta e sulla smodata ambizione di Renzi, il sindaco di Firenze ha proseguito la sua marcia.



Su che cosa si basa la sua forza? Innanzitutto, sul fallimento identitario del gruppo dirigente proveniente dal vecchio Pci. Occhetto, all’indomani dello sbriciolamento del Muro, che per un’ironia feroce della storia era rovinato, almeno in Italia, addosso ai vincitori e non ai vinti dello storico duello tra capitalismo e socialismo, si era prodotto in un salto mortale. Sì, non più comunisti, ma neppure socialisti/socialdemocratici: solo “democratici”.

La terza via occhettiana si illudeva con ciò di scavalcare con un balzo il rapporto con i socialisti di Craxi e con quelli dell’Internazionale socialista e, soprattutto, di evitare il doloroso processo di metamorfosi, cui i laburisti inglesi di Blair e i socialdemocratici di Schroeder si erano consapevolmente offerti, nel tentativo di far fronte al reaganismo e al thatcherismo. Già dalla fine degli anni 80, infatti, erano in crisi profonda le politiche socialdemocratiche del welfare alla svedese: tasse altissime, oltre il 50% del reddito, e servizi di welfare statale efficientissimi.

Incapaci di muovere almeno i primi passi sulla via di una sinistra liberale o di un socialismo liberale, che non avesse più al centro della costellazione di valori l’eguaglianza, ma le libertà, eventualmente da distribuire egualitariamente – come suggeriva già negli anni 30 Carlo Rosselli, parlando di “libertà eguale” – D’Alema e Veltroni avevano chiesto aiuto a Romano Prodi, esponente di quella sinistra democristiana che si era fatta le ossa nelle Partecipazioni statali. Nel 2001 a Pesaro, segretario Fassino, i Ds avevano proclamato la loro adesione al riformismo, senza tuttavia riuscire ad assumere un’identità socialista liberale. Prodi venne richiamato in servizio biennale nel 2006. Ma a partire dal 2009 il Pd ha perso milioni di voti e centinaia di migliaia di iscritti, è tornato Berlusconi, poi Monti, poi Letta. Il Paese ora cammina sull’orlo del fallimento.

L’incapacità del sistema dei partiti di risolvere i problemi del Paese ha generato uno tsunami populista nel Paese, il ritiro sull’Aventino dell’astensione di milioni di elettori. La mozione congressuale di Renzi propone al Pd l’identità di una forza cattolico-liberale e socialista liberale. Diversamente da Fioroni, è d’accordo di riversare nel filone della sinistra socialista europea la forza del Pd. Le proposte sul fisco, sulla pubblica amministrazione, sulla riduzione dei costi della politica sono coerenti con quell’impostazione culturale e identitaria.

La proposta decisiva, tuttavia, riguarda la “custodia del bipolarismo”, gentile e non gridato, come accaduto finora, ma netto e irreversibile. L’idea di eleggere il capo del governo come “il sindaco d’Italia” – che fu una parola d’ordine fortunata di Mario Segni negli anni 90 – porta verso una forma di semi-presidenzialismo alla francese e verso un sistema elettorale a doppio turno. Il senso della proposta è “che restituisca ai cittadini il sacrosanto diritto di scegliere a chi affidare i propri sogni, le proprie speranze, i propri progetti”. E’ questo il modo per guarire la politica dalla sua malattia mortale. In questa ipotesi viene scardinata la centralità istituzionale del sistema dei partiti. Con ciò si entra nell’arena dello scontro con l’intera tradizione democristiana, comunista, socialista della prima Repubblica.

Qui è il passaggio a Nord-Ovest. Molto presto sapremo se dietro a Matteo Renzi si schiereranno forze bastevoli per trovare il passaggio e andare oltre i confini della prima Repubblica e oltre le macerie della seconda.