Nell’imaginario pubblico, da prendere con le molle e da filtrare criticamente, Renzi è noto come il rottamatore, Cuperlo come il rappresentante dell’apparato dalemiano-bersaniano, Pittella è l’europeista. E Civati? Partito con Renzi nella battaglia per il rinnovamento interno, si è messo “in proprio” quasi subito, dopo un rapido passaggio alla Leopolda. Concluderne che è scattato l’effetto “due galli nel pollaio”, come vanno sussurrando ad alta voce gli avversari dell’uno e dell’altro, è forse possibile, ma non rende giustizia né ai discorsi né alle scelte.
I discorsi, innanzitutto. Civati ha presentato al dibattito congressuale una mozione-tomo di 70 pagine, intitolata “Dalla delusione alla speranza. Le cose cambiano cambiandole”. Vi hanno un larghissimo spazio la fenomenologia della “crisi di vocazione” del Pd e l’appello alla speranza. Il Pd di Civati si autodefinisce “il partito delle possibilità”. Gli studi filosofici della giovane promessa devono avere incrociato Leibniz da qualche parte. Del Pd propone una riforma strutturale che ne faccia strumento di democrazia rappresentativa, partecipativa, deliberativa. La sua mozione naviga, assai più dettagliatamente delle altre tre, per l’intero scibile programmatico, dal fisco alla spesa pubblica, dal reddito minimo garantito all’immigrazione, dai diritti delle donne a quelli delle coppie omossessuali, ecc…
Quanto alle policy, Civati propone l’approccio delle “mosse egualitarie e soluzioni liberali”. In molte analisi e nelle soluzioni concrete rieccheggiano i contenuti e lo stile del famoso, per lo spazio di un mattino, documento sul “catoblepismo” di Fabrizio Barca, che per un attimo parve volersi candidare per unire uno schieramento che andava dal Pd a Sel. E non è forse un caso che Civati si proponga con la stessa operazione. Egli parla a un pubblico della sua stessa generazione di giovani, che oggi votano Sel o M5S, con un linguaggio di sinistra, che non usa più il lessico duro della lotta di classe, che investe sul lavoro e sulla classe operaia quale portatrice di per sé di un nuovo destino per il Paese. “Mosse egualitarie e soluzioni liberali”, slogan al limite dell’ossimoro, va incontro alle domande di una giovane generazione, che vorrebbe beneficiare delle stesse prestazioni del welfare dei padri, però usufruendo di maggiori libertà e flessibilità.
Quanto alla collocazione internazionale del Pd, il Partito socialista europeo resta il punto di riferimento. Ma si vuole “andare più in là”, verso i progressisti, la cui identità resta tuttavia indecifrabile. Questo è un vecchio tic, che fu già di Occhetto. Non comunisti, ma neanche socialisti, “democratici” appunto.
E sulle istituzioni politiche? Nonostante il linguaggio colto, post-moderno, accattivante, che non ha più nulla a che fare con le tesi congressuali classiche, scritte nella “lingua di legno”, sulla questione cruciale e dirimente del potere degli elettori, l’impianto resta tradizionale, la continuità conservatrice prevale sull’istanza di cambiamento.
Sì, all’abolizione del Senato, sì alla riduzione del numero dei Comuni, sì all’abolizione delle Province (ma le Regioni non si toccano!), sì al sistema elettorale maggioritario, però non il doppio turno, ma il Mattarellum (un turno solo, con recupero del 25% di proporzionale per salvare i partiti, soprattutto quelli minori). Ma lo schema resta quello classico: l’elettore “nomina” il deputato, il governo lo formano i partiti in Parlamento. Civati (e Cuperlo) esclude decisamente il (semi-) presidenzialismo. La Costituzione italiana del 1948 resta la miss Universo delle costituzioni.
Alla fine, la spumeggiante Weltanschauung si infrange sulle scogliere del partito-Stato, che prende le decisioni fondamentali, lasciando gli elettori fuori dalla porta. Il messaggio di Civati è che gli elettori interni al Pd devono contare molto di più di adesso nella democrazia interna di partito, ma, poi, in quanto elettori del Parlamento, possono solo limitarsi a eleggere dei deputati, i quali poi penseranno loro a scegliere il capo del governo e il presidente della Repubblica.
La pretesa ricorrente, dalla fine della prima Repubblica, di spalancare i partiti alla società civile, senza togliere loro il potere di formare i governi, ci riconsegna il primato del partito-Stato. E’ la stessa contraddizione del Documento Barca: denunciato efficacemente l’intreccio tra partiti, Stato, amministrazione, alla fine non riduce lo spessore ontologico dei partiti, decisi a mantenere la presa sia sulla società civile sia sullo Stato… Ma veniamo alle scelte politiche concrete, che sono più illuminanti e meno ambigue delle parole.
La vicenda della presidenza della Repubblica ha visto Civati schierarsi per la candidatura di Stefano Rodotà, il cavaliere bianco dei diritti, sostenuta dal M5S, da Sel, dalla sinistra interna del Pd e dai residui della cosiddetta società civile-politica. Sul governo: Civati è ostile al governo delle larghe intese, accusa Renzi di tendenze neo-centriste. Fino all’ultimo ha condiviso il tentativo fallito di Bersani di fare un governo con M5S, rispetto al quale si è esposto come intermediario attivo. L’idea di fondo è che un’alleanza tra Pd rinnovato, frammenti consistenti di M5S e Sel possano portare ad una vittoria elettorale rapida e consistente.
Insomma: una gran voglia di andare a votare. In termini di geopolitica interna, Civati è il più a sinistra dei tre concorrenti alla segreteria del Pd. Ma lo è con un linguaggio nuovo, non più attinto al massimalismo di classe, ma al massimalismo dei diritti, opportunatamente condito con il reddito di cittadinanza.