Chi si candida a governare una nazione come l’Italia deve, a mio avviso, dimostrare la capacità di intravedere le principali problematiche del tessuto sociale ed economico. Da qui creare processi virtuosi che mettano in moto anche la società civile per risolvere le criticità.
In questo senso, il tema dell’edilizia residenziale sostenibile in Italia non può essere classificato solo come una delle tante questioni aperte. È ormai un’emergenza, accentuata dalla crisi che ha trasformato la casa in un “lusso” permesso ad un numero sempre minore di famiglie. Il dibattito che si sta generando in questa campagna elettorale non può eludere tale argomento, senza far emergere proposte concrete.
Purtroppo la “zona grigia” della popolazione italiana, costituita da chi è troppo ricco per poter ottenere un alloggio popolare e chi è troppo povero per potersi permettere un affitto di mercato, è sempre più vasta. Per non parlare di chi non ha sufficiente sicurezza sul proprio futuro per pensare all’accensione di mutui per l’acquisto della prima casa. È una fascia sociale eterogenea, che tocca vecchie e nuove generazioni, che già da troppo tempo attende risposte concrete ed efficaci. Si tratta di un dato di fatto, dettato dalla totale inadeguatezza del rapporto tra la domanda e l’offerta di case nel nostro Paese.
Lo sviluppo del Social Housing resta la via maestra per offrire una soluzione abitativa adatta a migliaia di famiglie. La formula è chiara: realizzare case di qualità a canoni moderati, i cosiddetti “affitti sociali”, su aree “a standard” o terreni oggi inutilizzati, ceduti da privati o messi a disposizione dalla Pubblica Amministrazione, compresi beni dismessi (pensiamo, ad esempio, al patrimonio in giacenza nelle banche italiane o in capo agli enti religiosi). Senza dimenticare che si tratta di interventi mirati sempre alla sostenibilità ambientale e sociale, alla cosiddetta “edilizia verde” e al risparmio energetico, nonché concentrati sulla qualità piuttosto che sulla quantità delle unità abitative.
Eppure su questo campo l’Italia sconta un gap rilevante rispetto ai Paesi del Nord Europa, che hanno accumulato esperienze significative negli ultimi vent’anni. Una delle cartine di tornasole ci è data dalle cifre di Eurostat, secondo cui il “Severe Housing Deprivation”, che misura il disagio abitativo tra sovraffollamenti e alloggi di scarsa qualità, in Italia è pari all’8,8% contro le medie dell’Unione Europea al 5,5% e dell’Eurozona al 3,5%. Non solo. In Europa il Social Housing coinvolge circa il 15% del patrimonio complessivo di abitazioni complessivo, nel nostro Paese la quota dedicata è del 6%.
Il gap potrà essere ridotto in presenza di una maggiore di disponibilità di aree e di immobili da riqualificare, posizionati in ambiti già integrati nel tessuto urbano.
Ecco allora che la prima tra le condizioni imprescindibili per dare un’accelerata allo sviluppo di progetti di abitare sociale passa dalla necessità che patrimoni, pubblici e privati, oggi non utilizzati, oppure aree da edificare, siano messi rapidamente a disposizione di fondi, imprese e realtà non-profit perché possano valorizzarli.
Un ulteriore impulso può arrivare dall’abbattimento dei tassi d’interesse sui mutui e dalla creazione di fondi che coinvolgano la finanza pubblica e privata, anche col sostegno della Cassa Depositi e Prestiti, dotata a sua volta del Fondo Investimenti per l’Abitare (Fia) destinato proprio a intervenire a favore della costituzione di Fondi territoriali di dimensione regionale o locale. Inoltre, l’eliminazione del tetto del 40% per le partecipazioni locali del Fia, registrata nelle scorse settimane dalla Corte dei Conti, potrà sbloccare progetti rimasti a lungo congelati.
Infine, è auspicabile una riforma fiscale che introduca un regime Iva al 4% per chi sviluppa politiche sociali della casa, equiparando così l’aliquota prevista per chi oggi acquista la prima abitazione.
Si discute molto. Si annunciano iniziative. Ma poi si concretizza ancora troppo poco rispetto alle necessità reali delle persone. Se la politica mettesse in agenda lo sviluppo di un vero piano per l’edilizia sociale, in grado di procedere lontano dagli imbuti dell’eccessiva burocrazia, ne guadagnerebbe di credibilità. Arriverebbe un forte segnale di ripresa a tutta la comunità economica nazionale. Arriverebbe, finalmente, una risposta a milioni di persone che coltivano uno dei desideri insopprimibili: una casa dove abitare, una dimora dove vivere.