Caro direttore,
secondo un sondaggio Ispo pubblicato qualche giorno fa dal Corriere della Sera il Movimento 5 Stelle risulterebbe il primo partito tra i giovani sotto i 23 anni: un voto di protesta, un voto di pancia, ma anche una chiara mozione di sfiducia a una generazione di politici che si è mostrata inadeguata a rispondere ai problemi del paese. Dopo aver mentito per conquistare il nostro voto – è questo il ragionamento –, si sono voltati dall’altra parte, troppo presi dai loro interessi per badare a quelli dell’Italia. Basta: è venuto il momento di mandarli a casa.



La stessa logica si ritrova in una battuta sferzante di qualche tempo fa da parte di Mario Monti contro Silvio Berlusconi, uno dei tanti episodi di questa convulsa campagna elettorale. Come il pifferaio di Hamelin incanta i topini portandoli ad annegare, così l’illusionista e ingannatore Berlusconi avrebbe incantato i suoi elettori per poi precipitare tutti nel baratro.



Ma la battuta di Monti si presta anche a un’altra interpretazione. Se i politici si comportano come pifferai magici, gli italiani rischiano di assomigliare ai topini della fiaba: ingenui, privi di accortezza e di volontà propria, inseguirebbero volentieri promesse di facili soluzioni finendo, senza accorgersene, per cadere in un dirupo.

Esagerazione? Facciamo un piccolo test: quanti di noi sarebbero in grado di motivare la propria scelta di voto a un interlocutore che non la pensi allo stesso modo? Riusciremmo a dare una risposta argomentata, che tenga in considerazione la complessità della situazione e la pluralità dei fattori in gioco? Ognuno risponderà per sé, ma, a giudicare dai sondaggi che sono stati pubblicati fino alla scorsa settimana sui giornali, l’opinione di tanti elettori oscilla capricciosa e instabile al minimo soffio di vento: la notizia dell’ennesimo scandalo, una buona performance in tivù, una battuta ben calibrata e perfino una doppietta in campionato infiammano gli animi e sembrano bastare per orientare un parere, per conquistare un voto.



E chi invece resta saldo nelle proprie convinzioni, lo fa a ragion veduta o solamente per un’abitudine e una simpatia mai messe al vaglio dei fatti?

Il rischio che corriamo è quello di essere come la folla descritta da Manzoni nel capitolo XIII dei Promessi sposi: «Pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l’occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volentieri […] attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbian detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’uno con l’altro: cos’è stato?».

La folla manzoniana ci restituisce, ingigantita ed esasperata, l’immagine della nostra difficoltà ad avere una lucidità di giudizio, ad assumere una fondata posizione personale: “cosa è stato?” potrebbe essere la nostra stessa domanda, quando tutto sarà ormai finito.

La crisi, insomma, è più profonda: prima che riguardare gli eletti, riguarda gli elettori. Non si tratta di un problema politico, ma educativo. Infatti, senza consapevolezza e responsabilità non si va lontano: subito il “governo del popolo” si trasforma nella dittatura dei peggiori, di chi urla più forte e sobilla gli istinti più bassi, semplificando ciò che è complesso e trasformando il confronto politico in uno spettacolo da stadio, dove l’esercizio della ragione è solo d’ostacolo, perché l’importante è fare il tifo per la propria parte.

E quindi? Possiamo ignorare il problema, chiudere gli occhi e votare, affidandoci speranzosi a una delle tante sirene che cercano di ammaliarci con i loro slogan. È la via più facile e rassicurante, richiede meno fatica, ma il prezzo da pagare è alto: delegare ad altri la propria scelta, rinunciare a giocare la partita e così, in definitiva, vivere come la folla manzoniana.

C’è un’alternativa. Più rischiosa e impegnativa, ma più affascinante. Consiste nel mettersi in gioco per capire, con il gusto di conoscere e perciò senza temere la complessità, informarsi, confrontare i dati, discuterli, immedesimarsi nelle ragioni dell’altro, immaginare il modo per dare un contributo al bene di tutti. Allora si potrà sbagliare, essere parziali e persino perdere le elezioni, ma si diventerà più adulti, e questo conterà di più anche politicamente.

Il voto che ci attende diventerà così l’occasione per prendere sul serio il compito che la vita e la circostanza storica del nostro paese ci chiedono: affrontare i problemi senza paura, rischiando il proprio giudizio personale. Chi ha iniziato a farlo, in famiglia, con amici o colleghi sul luogo di lavoro, sa che si tratta di un’avventura appassionante e alla portata di tutti, esperti e non. Vivere è la prima forma di politica, e questo può farlo chiunque.

Simone Invernizzi