All’inizio sembrava una campagna elettorale dall’esito scontato che il Pd affrontava sull’onda del successo delle primarie Bersani-Renzi quasi da “partito unico” sulla scena nazionale. Poi c’è stata la rimonta di Berlusconi che ha reso incerta una maggioranza Pd-Sel anche in Senato ed ora non è escluso uno scenario di ingovernabilità. La prospettiva di un governo di compromesso per modificare la legge elettorale e tornare nuovamente alle urne in coincidenza con le elezioni europee del prossimo anno avanza come nuova ipotesi.



Di certo in nessuna elezione dal 1994, con il sistema maggioritario, si è visto come tema dominante del finale della campagna elettorale quello delle alleanze: Bersani che guarda al centro, il centro che non esclude un accordo a destra (senza Berlusconi), la sinistra che si offre al Pd come alleato alternativo a Monti, Berlusconi che propone un “governo costituente”. Il bipolarismo sembra perdere il controllo della situazione tanto che non è più certo che alla fine, tra Bersani e Berlusconi, uno sarà vincente e l’altro perdente. La posta in gioco per i due leader non è la stessa: Bersani punta tutto su Palazzo Chigi e Berlusconi sull’essere determinante e comunque non ghettizzato. Potrebbero entrambi, insieme, rimanere in sella o essere disarcionati. Non bisogna dimenticare che, insieme, hanno imposto il mantenimento dell’attuale legge elettorale ed osteggiato il Quirinale che chiedeva la modifica.



Il leader del Pd, dopo le primarie di partito e di coalizione, ha l’obiettivo di far finalmente approdare, dopo una traversata di venticinque anni, la “ditta” ex Pci alla guida del paese con un governo di legislatura. Non è uno sbocco (solo) di potere, ma il raggiungimento di un traguardo dopo un arco di sperimentazioni. Se gli ex Pci falliscono anche questa volta per Bersani non c’è un “piano B”. il nervosismo è tale che, appunto, in modo forse imprudente il Pd si è avventurato ad aprire il dibattito sulle alleanze. Con ipotesi che possono apparire agli elettori anche un po’ confuse e astratte.



L’idea di un accordo “istituzionale” e cioè prospettando un’intesa del Pd con il centro senza coinvolgimento ministeriale è brillante, ma difficilmente praticabile. L’elezione alle cariche istituzionali (dal Quirinale alla presidenza delle Camere) richiede il voto segreto e quella di Pierluigi Bersani non è una platea affidabile con Vendola e sinistre Pd. Quindi rimane la strada di una partecipazione diretta di ministri di centro con ministri del Sel che però – allo stato attuale – entrambi i partiti giurano di escludere. 

Se Bersani non ha la maggioranza al Senato dovrà allora trovare un “modus vivendi” con il Cavaliere ed è appunto questo l’obiettivo principale e realistico di Berlusconi: una situazione frantumata che imponga un accordo tra i partiti maggiori.

Ma anche la rimonta di Berlusconi ha il suo “tallone di Achille”: deve vincere in Lombardia. Se perde in quelle elezioni regionali vi è una disgregazione nazionale immediata con la Lega che si stacca per cercare il rilancio in una corsa solitaria e identitaria nelle elezioni europee del 2014 che si svolgono con il metodo proporzionale.

Il dato di fondo di queste elezioni è la crisi del bipolarismo che non è più in grado di polarizzare l’elettorato.

Si delinea quindi in questa settimana uno scontro finale tra voto “utile” e voto “sicuro”. Ma gli appelli di Berlusconi e di Bersani hanno – almeno presso una quota dell’elettorato – l’handicap di un “dejà vu” (maggioranze che si sono autoaffondate tra litigi e inadempienze) che può avvantaggiare il voto “sicuro” per formazioni nuove come quella dello showman genovese al motto “ogni grillino in più, un ladro in meno”.

A destabilizzare il bipolarismo è stata infatti l’escalation di questi anni sui “costi della politica” che è culminata con la discesa in campo di magistrati: da un lato l’“intervento da terra” con liste proprie o in liste altrui; dall’altro il “bombardamento aereo” di scandali su centro-sinistra e centro-destra.

La posta in gioco? Evidentemente, come nel 1992, il nuovo Presidente della Repubblica eletto da un Parlamento impaurito, frantumato ed esautorato.

Di certo è comprensibile un malumore nel Pd: se dopo le dimissioni di Berlusconi, invece di fare la “strana maggioranza”, si fossero sciolte le Camere, ora Bersani sarebbe a Palazzo Chigi, Ingroia in Guatemala, Monti fuori dalla politica e Berlusconi già condannato e interdetto.