Lucia Vigutto, studentessa di quinta superiore, vota quest’anno per la prima volta. Riceviamo e pubblichiamo la sua lettera, alla quale risponde Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

Caro direttore,
sono una studentessa di liceo e, dovendo votare per la prima volta, ho tentato di capire qualcosa del panorama politico. È una strada ardua, ho cominciato andando un po’a tentoni, bersagliando di domande mio padre fino a sfinirlo per comprendere i meccanismi, le personalità, la storia, ho cominciato a leggere di più i giornali cercando di sviluppare una capacità critica anche con gli amici, insomma, forse un po’ tardi, ma mi sono impegnata. Tutto perché ho diciotto anni, e da quest’anno mi sono resa conto che posso avere un peso nella società, posso contribuire a decidere per il mio paese, che altro non è che la mia scuola privata (che costa tanto, perché lo Stato non capisce che è un servizio come gli altri), o il pullman (che non prendo alla mattina perché non c’è ancora la linea che mi serve) e tante altre cose; ma è anche il suolo, il contesto, dove c’è casa mia, la mia famiglia, che si merita il meglio e che desidero difendere ad ogni costo, pensando a quei bambini che avranno due papà e poche ragioni per stare in un mondo dove non si comprendono più le differenze tra le cose, o a quei bambini che attendono e non nasceranno. Perché tutto questo c’entra con me, e val la pena dedicarsi ad esso, perché c’è tanto da fare, tanto da imparare, tanto da vivere. 



Ma più capisco e guardo, e, invece che sentirmi animata dal desiderio di cambiare le cose, di partecipare, di vivere un’avventura da grandi, più avverto lo sconforto di una disillusione. 

Sembra che la politica sia un gioco truccato, dove il Potere sposta velocemente sul banco le ciotole coperte e ti chiede: “Dov’è la pallina?” e tu sei costretto a scegliere una tra quelle, anche se sai benissimo che ce l’ha in tasca, o che, perlomeno, non è in nessuna (e non dimentichiamo gli scommettitori, che dietro il bancone del Potere, giocano in borsa con i soldi della gente).



Eppure sento di non poter rinunciare per un’affezione profonda, irrinunciabile, costitutiva alle cose del mondo. Dovrò scegliere anch’io una delle ciotole coperte? Ci deve essere un altro modo per vivere questa affezione, che non sia soccombere al gioco del potere! Ci deve essere! È un’alternativa che cerco, non tanto delle promesse, dei progetti, ma qualcuno che condivida con me questa affezione. Un’alternativa sincera.

Lucia Vigutto

Cara Lucia,
anch’io, che voto da quarant’anni, lo farò anche questa volta, come te, spinto dal desiderio di dare il mio contributo al bene del mondo in cui vivo. Il primo impegno in questo senso è per me quello di cercare di non ridurre la lettura della realtà a schemi più o meno ideologici, provando a capire più a fondo i bisogni, personali e collettivi, nel loro nesso con il contesto ampio in cui vivono.



Si vogliono più soldi o più lavoro senza tener conto che in un mondo globalizzato altri Paesi emergenti stanno sottraendoci quote di mercato e nessun politico può in alcun modo impedirlo: ciò che è legittimo aspettarsi è piuttosto una politica economica realistica e impegnata nel sostenere chi sappia individuare le opportunità in un contesto così in divenire. Si vogliono più servizi dallo Stato senza arrendersi al fatto che lo Stato non ha più soldi e che i meccanismi di mercato tendono ad affossare chi ha un debito troppo alto. Si insiste sulla difesa di alcuni diritti, senza pensare che alla loro base c’è il valore della vita in toto, dal momento del concepimento e anche quando non si è più “produttivi”.

Si vuole, si vuole, si vuole, senza pensare che quel che accade dipende anche da noi e che questo volere è spesso una pretesa egoistica di noi come persone, come gruppo o come classe sociale.

La comunità cristiana cui appartengo continua a educarmi a vivere un bisogno non ridotto, espressione dell’esigenza di giustizia, di verità, di bellezza di cui è fatto il mio cuore. E continua a mostrarmi come il bene altrui sia parte integrante del mio bene personale e come solo liberando e rendendo azione questi desideri costitutivi possa generarsi sviluppo e benessere sociale. Così ho potuto guardare la politica riposizionando il suo ruolo, senza affidarle speranze messianiche e senza eludere la mia responsabilità nei suoi confronti. E per questo ho potuto scoprire che le risposte alle domande di cambiamento e di bene non sono in un futuro utopico, in un anno che verrà, in un sistema politico perfetto, ma in qualcosa che da subito mostra la sua diversità: comunità e gruppi sociali ispirati da diversi ideali in cui i rapporti tra uomini sono diversi, volti a perseguire il bene, capaci di correggere l’inevitabile caduta per redimere, non per annientare. Nella nostra società, generata dal cristianesimo e da un umanesimo laico, quanti ospedali, opere di assistenza, scuole, università, opere culturali, cooperative e imprese in cui questo modo di agire mosso dal desiderio dell’uomo, dalla fede, da ideali si può riscontrare! 

Così, nel mio percorso scolastico io ho già vissuto una effettiva libertà di educazione; nell’università in cui studio e lavoro da 40 anni niente può impedirmi di vivere un’esperienza di conoscenza, di creatività, di lavoro alacre. Nelle opere culturali in cui sono implicato, come la Fondazione per la Sussidiarietà o il Meeting di Rimini, vivo ogni giorno il fascino di una riflessione sull’esperienza che valorizza tutto ciò che c’è di nuovo, bello, vero, in chiunque lo porti, da qualunque parte del mondo provenga. Nelle realtà sociali ed economiche cui ho partecipato, come la Compagnia delle opere, ho potuto assistere ad un’iniziativa libera e generosa di persone che, invece di lamentarsi, hanno dato vita a nuove imprese, nuovo lavoro, e hanno saputo affrontare la crisi accettando di cambiare.

Non ho mai chiesto alla politica di far nascere questa vitalità e fecondità, anzi ho diffidato di chiunque dicesse (come è avvenuto nella prima e ancor di più nella seconda Repubblica): “ci penso io a darti quello che ti serve, dammi il potere e realizzerò il cambiamento”. Infatti, anche i programmi più innovativi si sono rivelati incapaci di portare risposte adeguate quando chi era al potere ha pensato di realizzarli non valorizzando le presenze sociali, economiche, culturali di base, secondo il principio di sussidiarietà, ma dall’alto dei ministeri e dei partiti. Né ho chiesto alla politica di aiutare solo le opere del gruppo sociale cui appartengo, ma ho chiesto di non diffidare di nessuna iniziativa che avesse lo scopo di rispondere ai bisogni della gente. Ho chiesto che ci fossero legislazioni che dessero spazio a queste realtà di base, ne valorizzassero l’impeto costruttivo per il bene comune. Certe volte la politica ha accettato il suo alto ruolo di servizio al bene di queste realtà, come ad esempio in Lombardia (che con buona pace di tutti è un posto dove i cittadini vivono bene, possono scegliere ottimi servizi grazie alla competizione virtuosa che si è creata e trovano molte loro iniziative valorizzate). In molti casi la politica si è arroccata in un ruolo autoreferenziale, senza peraltro essere in grado di fare granché. 

Oggi guardo alle prossime elezioni chiedendo ancora una volta di sostenere questi che ritengo strumenti essenziali di bene comune: investimento sul sistema educativo e sul capitale umano e libertà di educazione, welfare sussidiario, sostegno alla piccola, media e grande impresa che produce, occupa, esporta. Sceglierò chi ritengo possa rispondere meglio a queste istanze, ma in nessun caso sarò deluso, perché il soggetto vivo che può generare bene comune può comunque fare la sua strada, prendere consapevolezza di sé e crescere. E questa è la più grande speranza per tutti e per il nostro Paese.

Giorgio Vittadini