Il 20% di voti nazionali che gli ultimi sondaggi assegnano a Beppe Grillo, un paio d’anni fa venivano accreditati a Luca di Montezemolo: forse un po’ entusiasticamente, ma certo entro uno schema analitico non irragionevole. Il berlusconismo “fallito” – o comunque al tramonto, indipendentemente dall’aggravarsi della crisi economico-finanziaria – sembrava destinato a rimettere inesorabilmente in discussione una porzione vasta, forse maggioritaria dell’elettorato: quella che nel 1994 era stata clamorosamente intercettata dal Cavaliere, che tuttavia non era riuscito a renderla rappresentanza politica strutturata di blocchi sociali omogenei.
Montezemolo – figura simbolica di raccordo fra poteri finanziari nordici ed establishment romani – aveva raccolto idealmente il testimone da Gianni Agnelli: l’italiano che forse più di tutti aveva sofferto il successo inopinato del tycoon di Arcore. L’imprenditore di prima generazione che aveva saputo farsi premier democratico, interpretare con tempismo e abilità il cambiamento dei rapporti fra politica e big business aveva intaccato in modo grave il primato tradizionale del presidente della Fiat: primo gruppo del paese, “governativo” con qualunque governo, anche quello fascista. Berlusconi – che ha comunque resistito per un intero ventennio e probabilmente neppure domani sarà fuori scena – è stato incessantemente combattuto in quanto “anomalia” dall’élite finanziaria nazionale non meno che dalla magistratura. La cultura antipolitica è stata sistematicamente prodotta dal sistema mediatico controllato dalle grandi famiglie del capitalismo privato privato – ad esempio con le inchieste sulle “caste” – con intensità non inferiore al ritmo delle indagini giudiziarie mirate.
Una volta affidata alle rappresentanze parlamentari minoritarie di Pli e Pri (nel quale ha militato Susanna Agnelli) o di abboccamenti con la stessa Dc (Umberto Agnelli negli anni ’70), la “nobiltà capitalista” ha intanto imparato ad aggiornare strumenti e obiettivi delle proprie armi antipolitiche: la pervasività dei “tecnici” (da Ciampi e Draghi, da Padoa-Schioppa a Monti, con cooptazioni come Amato o la Bonino) in un clima mediatico sempre sottilmente “emergenziale” è stato il risultato più tangibile di una stagione che sembrava però destinata a concludersi con un salto di qualità. E proprio l’erede dell’avvocato sembrava indicato per far quadrare molti conti sia in politica che in economia: la domanda di rappresentanza da parte di un’Italia neo-imprenditoriale divenuta adulta; lo sviluppo di un idea di “made in Italy” che Agnelli e la Fiat avevano incarnato nel dopoguerra; la normalizzazione – dentro e fuori i confini del Paese – di un modello di governance del Paese troppo esposto sul principe-mercante Berlusconi. Non da ultimo, Montezemolo sembrava poter dar corpo a una fase riformista, in cui le relazioni sindacali tradizionali (“fordiste”) potevano convivere con nuove dimensioni socio-economiche: la meritocrazia globale che è il linguaggio delle generazioni più giovani.
Ma “something got wrong”, qualcuno deve aver sbagliato qualcosa (e di grosso) se quel 20% di voti in libertà sembrano oggi già in tasca non a Montezemolo ma a un personaggio che – in diretta tv – sembra la controfigura dell’antipolitico populista che batteva le piazze tedesche nei primi anni ’30. Ma l’Avvocato e i suoi pari – in fondo – si erano sbagliati di grosso anche nei primi anni ’90 quando i loro grandi media avevano invece accompagnato entusiasticamente la prima Tangentopoli e il suo “eroe antipolitico” Antonio Di Pietro, subito arruolato dal primo governo Prodi . Distruggere la politica era comunque l’”articolo unico” di un capitalismo bancario e industriale che dello Stato non riusciva a fare a meno. Vent’anni fa, ne approfittò tuttavia il più “outsider” fra gli imprenditori, “percepito” dall’opinione pubblica come non compromesso con la grande casta di un’economia in fondo per intero a partecipazione statale (e sindacale). Nel 2013 sembra prevalere un “savonarola” delle piazze deluse e arrabbiate per i troppi risparmi persi, per le troppe tasse, per il lavoro e il credito che non ci sono: ancora un’insofferenza di massa per gli esiti che chiamano in correo l’antipolitica strumentale. Il tragico paradosso è che la vittima rischia di essere questa volta Mario Monti: il tecnocrate che – tra mille difficoltà (tra cui l’inesperienza politica) – sta riprovando a dare forma a un riformismo moderato italiano, sulle scie europee del Ppe.