Due dati sono abbastanza chiari dopo il primo giorno del voto. Il primo è che la tanto temuta ondata di astensionismo è stata meno forte del previsto. La seconda è che chiunque vinca, non sarà un successo. Se il trend delle prime ore sarà confermato si arriverà al di sopra del 70 per cento. Una soglia psicologica minima, certo lontana dall’81 per cento del 2008, ma poteva andar peggio, con l’aria che tira.
Certo, va riconosciuto che il merito maggiore di questo mancato crollo va paradossalmente attribuita a Beppe Grillo ed al suo Movimento 5 Stelle, che è stato in grado di offrire una proposta politica giudicata dagli elettori o credibile, oppure – probabilmente – come una specie di ultima spiaggia per smuovere le acque e cambiare le cose in maniera radicale, scardinando dal di dentro vizi e malcostumi della Prima come della Seconda Repubblica.
Ecco allora che queste elezioni suonano come una sorta di campana dell’ultimo giro per tutto il sistema democratico del nostro paese, che ora ha il dovere di dimostrare di sapersi riformare seguendo le prassi costituzionalmente previste. Sarà un’impresa titanica che attende chi vincerà dalla consultazione elettorale, e non solamente per via della complessità delle riforme di cui il paese ha bisogno e che non potranno certo prescindere da molti degli interventi posti in essere negli ultimi 14 mesi dal governo tecnico guidato da Mario Monti.
L’altro dato chiaro ancor prima che le urne siano dissiggillate per contare i voti é che chi vincerà – chiunque vincerà- avrà ben poco da gioire. Dovrà fare i conti con la necessità di dare un governo stabile a questo paese tenendo presente due enormi problemi: il primo, di carattere squisitamente aritmetico, è che difficilmente potrà contare su una maggioranza stabile in entrambi i rami del Parlamento. Il secondo è che dovrà fare i conti con una crisi economica, tutt’altro che alle nostre spalle, non rappresentando affatto la maggioranza degli italiani, dal momento che la quota della vittoria si è drasticamente abbassata, e non sfiorerà più la maggioranza assoluta, com’è accaduto tanto nel 2006 quanto nel 2008, ma si fermerà – se va bene – intorno al 35 per cento.
Per quanto riguarda il problema strettamente aritmetico, è assai probabile che per governare serva una coalizione più ampia di quella che si è presentata al voto. In questo senso, prudente ed opportuna è la frase che Pierluigi Bersani ha più volte ripetuto in campagna elettorale: “chiediamo il 51 per cento, ma governeremo questo paese come se avessimo il 49”.
Ma misura e ponderazione dovranno essere poi utilizzati nella concreta azione di governo anche per ragioni di merito, dal momento che chi avrà in mano le redini del paese di fatto sarà stato votato da circa un italiano su quattro, contando anche coloro che hanno preferito non andare a votare. Eppure c’è tantissimo da fare, dalle risposte alla crisi economica per rimettere in moto l’economia, sino all’architettura istituzionale il cui ammodernamento non è più rinviabile.
Ogni mossa andrà soppesata con cura, rifuggendo da idoli falsi come quello dell’autosufficienza, che fece naufragare dopo appena 18 mesi il governo Prodi del 2006, mentre Berlusconi la grande coalizione l’aveva offerta alla sinistra. Il salto che deve fare il paese ha bisogno di apporti ampi, quindi la necessità di una coalizione potrebbe non rivelarsi poi troppo negativa. E la reale volontà di aprirsi verrà misurata subito: prima ancora di formare il nuovo esecutivo sarà necessario eleggere i nuovi presidenti delle Camere, e si spera che non sia la famelica ansia di tenere tutte le poltrone in mano alla maggioranza a prevalere.
Nel giro di poche settimane, poi, ci sarà un’altra delicatissima scadenza cui far fronte, quella di scegliere il successore di Napolitano. Più ancora che per i presidenti delle Camere, qui bisognerà volare alto. Chiudersi nella torre d’avorio dei numeri ed attendere il quarto scrutinio per eleggere un presidente di maggioranza sarebbe un pessimo inizio. Per guidare la fase di transizione verso una terza Repubblica, che è ancora lontana, serve qualcosa di più, un arbitro in cui tutti, o quasi, possano ritrovarsi e riconoscersi. Altrimenti il grillismo dilagherà, con effetti davvero imprevedibili, finendo di costituire un argine alla mancanza di partecipazione alla vita pubblica.