Le elezioni italiane del 24 e 25 febbraio 2013 sono, secondo il parere di molti analisti e osservatori, decisive. Ma probabilmente saranno anche consultazioni storiche, indipendentemente dal risultato che uscirà dalle urne oggi pomeriggio. Da molto tempo non si sente più parlare di “transizione”, anche perché si teme ormai di sconfinare nella farsa.
Infatti, la cosiddetta “transizione” dalla “prima” alla “seconda” Repubblica dovrebbe ormai durare da più di vent’anni, un tempo che supera la durata di fenomeni tragici del Novecento come il nazismo e il fascismo. Neppure la “Restaurazione” del 1815, sotto la regia di due grandi personaggi come il principe di Metternich e il principe di Perigord, cioè Talleyrand, ha retto per tanto all’usura del tempo. L’ Italia, nel bene o nel male, ha confermato ancora una volta la sua anomalia, battendo ogni record.
Ma l’impressione è che il tempo ormai sia finalmente scaduto. Difficilmente il prossimo potrà essere catalogato come un Parlamento della “seconda” Repubblica. E se mai questa fosse veramente esistita, la parabola di questi venti anni è conclusa, finita, sepolta e forse solo da ricordare per operare in modo completamente diverso. Bettino Craxi sosteneva, negli anni dell’esilio di Hammameth, che la “seconda” Repubblica era come una sorta di “araba fenice”: “Tutti sanno dov’è ma nessuno lo dice”. Con tutta probabilità Craxi ha commesso molti errori, ma indubbiamente su questa valutazione ci ha azzeccato, per dirla alla maniera di Antonio Di Pietro.
Il lungo viaggio che doveva portare alla moralità pubblica, alla trasparenza (che allora si chiamava alla russa, alla Gorbacev, glasnost), al rinnovamento politico ed etico, è abortito in una fase concitata, tra nuovi scandali di ogni tipo, con un Paese che non è per nulla normale e coeso (dato il tasso di litigiosità latente che si può vedere) e con un peso internazionale, sia politico che economico, molto ridimensionato.
Il grande “lavacro” del 1992, l’operazione di “pulizia” che doveva rigenerare tutto, ha finito per sostituire vecchi e tradizionali partiti, che avevano una loro storia e una “grande casa” di riferimento, con una serie di movimenti che, nella maggioranza dei casi, dipendono da leadership personali. Anche nel Partito democratico, dove pure si nota la struttura di un partito più organizzato, più presente sul territorio in modo uniforme, si discute se non si sia ancora in mezzo al guado, tra un partito moderno o un “comitato elettorale”, costituito tra ex appartenenti al vecchio Pci e alla vecchia Dc di sinistra.
In più, sia a sinistra (la lista di Antonio Ingroia), sia a destra (gran parte del centrodestra), sia trasversalmente nella società italiana, prendono piede posizioni anti-sistema, anti-europeiste (in un Paese che negli anni Novanta era il più europeista del continente), definite troppo schematicamente populiste, quasi con tagliente pressapochismo al modo del Komintern degli anni Trenta del Novecento. Posizioni che sono cresciute sotto gli occhi di tutti e che sono state sottovalutate, quando non “accarezzate”, con il passare degli anni.
È possibile che uomini politici accorti si rendano conto solo adesso che questi movimenti potrebbero mettere a rischio la stabilità politica italiana e potrebbero incidere anche sulla stabilità dell’Unione europea, dato il peso che l’Italia vi rappresenta come Paese fondatore?
Comunque la si analizzi, la storia di questi venti anni è ormai, dichiaratamente per tutti, un fallimento, che chiude il presunto passaggio o la presunta “transizione” dalla prima alla seconda Repubblica. E il risultato del voto di domani pomeriggio sarà il sigillo finale a un tentativo che non ha portato da nessuna parte.
Sarà necessario fare delle valutazioni storiche, nella loro giusta sede. Ma si può tentare anche di tracciare dei bilanci politici di questo ventennio. Molti parlano di un paese che era inserito in un sistema mondiale bipolare che è stato travolto, quasi improvvisamente, nel 1989. Forse la “Caduta del Muro di Berlino” ha preso in contropiede tutti gli assetti strategici, istituzionali, politici, economici e sociali. Altri pensano che l’Italia abbia vissuto all’ombra di una “lunga Repubblica di Weimar”, che di fronte alla grande svolta del 1989 non poteva che dimostrare tutta la sua inconsistenza istituzionale.
Che tutto quello che è avvenuto nel 1989 non sia stato compreso e valutato in modo conveniente, è un fatto condiviso da molti osservatori e analisti. E non riguarda solo l’Italia.
Negli stessi Stati Uniti, una volta sconfitto il “nemico storico”, “l’impero del male” rappresentato dall’Unione Sovietica, le nuove parole d’ordine erano: “arricchiamoci” e “lavoriamo il meno possibile”. Fin che la finanza creativa ha retto, il “cavallo” ha galoppato per ben nove anni di seguito. Poi sono venuti fuori tutti i problemi di imprevidenza e superficialità: la nascita, foraggiata dagli stessi americani, del fondamentalismo islamico di Al Qaeda; l’inconsistenza di un benessere interno basato soprattutto sulla nuova finanza. La crisi del 2007 era stata prevista da uomini come Hyman Nimsky, da Joseph Stiglitz, da Paul Krugman, non solo da Nouriel Roubini.
In Italia si è sposata subito la “moda” del liberismo sfrenato, partendo da un sistema di economia mista, con un atteggiamento subalterno e provinciale. Prima si è spazzata via qualsiasi invadenza della politica, poi si è relegata in un angolo l’economia per cavalcare il nuovo corso della finanza. Nessuno ha operato complotti o congiure. Ci si è solo adeguati all’andazzo dei “nuovi predicatori” di algoritmi, magari un po’ sopra le righe, in una sorta di utopia palingenetica che alla fine ha travolto tutto e tutti. Inoltre, i vecchi “vizi” italiani sono ritornati a galla: dal “sovversivismo dei grandi poteri” come scriveva Antonio Gramsci, “poteri forti” che in Italia sono sempre apparsi come “poteri anarchici”; da una diffusa (anche se a volte ampiamente giustificata) diffidenza verso uno Stato “non amico”, a delle istituzioni barocche se non bizantine, a una classe dirigente che non ha mai avuto il coraggio di rinnovarsi.
Al posto di fare una grande rifondazione dei vecchi partiti nel 1992, ci si è limitati a festeggiare la “caduta dei potenti” di quell’epoca e a non rifondare un bel nulla. Oggi, dopo più di venti anni, ci si rende conto che l’economia è più importante della finanza e che la politica è indispensabile nel governo di una comunità nazionale. Senza politica, c’è solo il vuoto. Che poi viene sempre occupato da altri.
È per lo meno curioso che tutto questo avvenga il 24 febbraio del 2013, il giorno in cui il maggior sconfitto della cosiddetta “prima” Repubblica, il leader ritenuto più colpevole degli scandali del passato, Bettino Craxi, avrebbe compiuto 79 anni. Craxi nacque infatti a Milano il 24 febbraio del 1934.