Sostanzialmente l’arrocco di Roberto Maroni riesce. Il nuovo leader della Lega Nord, dopo l’anno terribile, si porta a casa la presidenza della Regione Lombardia e un successo personale di tutto rispetto. Il problema semmai è il risultato complessivo della Lega, che non è più il primo partito in Lombardia, che perde consensi soprattutto nei capoluoghi di provincia, che a Milano, anche con la “grande stampella” del Pdl, non ha più un peso politico come quello che aveva all’inizio degli anni Novanta.
Ora Maroni può lanciare l’immagine di una grande macro-regione del Nord, più prealpina che padana, costituita dai tre governatori leghisti: in Piemonte, nel Veneto e in Lombardia. È la nuova parola d’ordine dietro a cui si cerca di mascherare le delusioni che covano all’interno del movimento.
Anche se indubbiamente le tre Regioni a presidenza leghista sono le più importanti d’Italia per forza economia e produttiva, la fetta più importante del Pil italiano. E si possono aggiungere altre considerazioni in senso metaforico. Come le azioni, anche i voti, in un caso come questo, “si pesano e non si contano solamente”. Sempre Maroni ha cercato di accreditare, a successo ottenuto, la compattezza del governo regionale lombardo e del Nord, rispetto alla “confusione romana”.
Non c’è dubbio che Maroni, in questi mesi, abbia agito con grande realismo. Ha dovuto affrontare una serie di “incidenti di strada” veramente pericolosi: dal “cerchio magico” alle imprese del “Trota”, all’uso disinvolto di denaro pubblico che ha finito per investire la stessa famiglia di Umberto Bossi, cioè il fondatore del leghismo, il leader carismatico che ha messo a soqquadro nel 1992 gli equilibri politici della “prima Repubblica”.
Ma riconosciuto tutto questo a “Bobo”, occorre vedere il risultato in tutta la sua realtà e in una prospettiva futura. Se all’inizio degli anni Novanta si diceva che la Lega era un movimento che partiva dal “profondo Nord” per scendere nelle città, oggi si assiste esattamente al contrario. La Lega sembra quasi ritirarsi dalle città e rifugiarsi nelle sue zone di origine o nei territori provinciali dei capoluoghi lombardi. Guardando ai risultati complessivi e ormai finali, si vede che il candidato della sinistra Umberto Ambrosoli vince non solo a Milano, ma anche nella maggioranza dei capoluoghi di provincia. Ambrosoli può lamentarsi di avere portato un suo “valore aggiunto” a una coalizione che anche se oggi annovera il primo partito in Lombardia, il Pd, non si schioda dal risultato già raggiunto dalle precedenti regionali, quando il leader era Filippo Penati.
Nella stessa Lombardia l’esplosione della protesta del movimento di Beppe Grillo si è mantenuta su livelli contenuti, quasi accettabili, raggiungendo un 13 e mezzo percento. Ha fatto meglio che nel resto d’ Italia la lista di Mario Monti, ma senza stupire nessuno. In pratica la Lombardia ha risposto in termini quasi normali alla “rabbia sociale” e alla responsabilità richiamata dal “governo dei tecnici” che ha caratterizzato queste elezioni italiane.
Ma è questo che getta un’ombra sul futuro della Lega. Se in condizioni di voto quasi normali la Lega perde consensi e il centrodestra, pur con la tenuta del berlusconismo, arretra di parecchi punti percentuali, vuol dire che si è entrati in una fase completamente nuova della vita della Lega Nord. Forse “contagiata” dalle esperienze di governo (andate male), forse troppo “mescolata” in questi anni con la politica romana, la Lega appare oggi come un movimento del tutto diverso da quello apparso sulla scena politica nei primi anni Novanta. In questo momento, a ben guardare, la Lega vive sull’eredità di un grande movimento di protesta e di rinnovamento dell’intero Paese che non è riuscito. In sostanza, la Lega vive dell’eredità lasciata da Umberto Bosssi con la sua leadership personale e carismatica.
Ma può un movimento nato con queste caratteristiche trasformarsi in un partito regionale, quasi normale, che pensa a gestire soprattutto il suo territorio di riferimento? È questa la domanda che ci si pone anche di fronte al successo di Maroni. E non bisogna dimenticare che, affrontando questa prova di “sopravvivenza”, sono stati messi in un angolo (o veramente superati?) una serie di contraddizioni interne al movimento: la solita insofferenza veneta, i distinguo sulla leadership, gli stessi “nostalgici” di Bossi.
Anche qui, nella Padania pedemontana, malgrado le rassicurazioni di Maroni, non c’è una realtà consolidata, ma una situazione in evoluzione con cui occorrerà presto fare i conti. Anche per i leghisti.