Mario Monti è parso – forse per la prima volta – convincente come politico la sera dell’apparente insuccesso d’esordio. In un Paese civile – “normale” – il leader di una forza politica si presenta in pubblico la sera stessa delle elezioni: davanti a tutte le telecamere, qualunque sia stato il risultato. Monti l’ha fatto. Pierluigi Bersani l’ha fatto dopo ventiquattr’ore di contorsionismi ufficiosi. Silvio Berlusconi l’ha fatto la mattina dopo, ma affacciandosi in voce su una rete di sua proprietà. Il suo omologo Beppe Grillo, naturalmente, ha fatto lo stesso: in audio sul suo sito, in serata con poco preavviso, mentre erano già pronte per il giorno dopo le interviste-“red carpet” davanti alla sua “mansion”, à-la-manière di una star para-hollywoodiana. Grillo è e resta. Lega Nord non pervenuta: Roberto Maroni o chi per lui, evidentemente, non ritengono di dovere alcun rispetto politico ai cittadini-elettori-contribuenti delle provincie di Frosinone o Agrigento .
Monti ha detto cose apparentemente ovvie, ma nessuna priva di senso sostanziale. Ha detto che il 10% raccolto nelle urne da “Scelta civica” e alleati è stato inferiore alle attese sue e degli osservatori: ha detto la verità, nient’altro che la verità. Ha detto di sentirsi “soddisfatto” che più di tre milioni di italiani gli abbiano dato credito: gli si può dar torto di fronte ai sette milioni “antipolitici” del Movimento Cinque Stelle?
Ha sottolineato che la sua iniziativa politica è partita da zero: ancora una volta difficile contraddirlo, visti i risultati singoli dei suoi blasonati partner di Udc e Fli. Ha detto che Scelta civica diventerà una “struttura”: orientamento controcorrente, con accenti “old” in tempi di “partiti liquidi”, di politica “cinguettata”, di carismi mediatici, che per di più – sull’istante – sembrano vincenti sull’impegno politico non improvvisato, sudato, verificato nel tempo, sulle cose, fra elettori ed eletti. Da ultimo: Monti ha detto che Scelta Civica, dal 15 marzo, sarà al lavoro in Parlamento. Al governo? All’opposizione? Lo deciderà la politica nelle sue sedi proprie: quelle istituzionali e sociali di un Paese civile, democratico, “normale”.
La sfida della “sezione italiana del Ppe” – concepita da Mario Mauro, eletto senatore – è e resta questa. E parte – apparentemente “battuta” – da una base elettorale superiore a quella dalla quale mosse Bettino Craxi: ultimo grande politico-riformatore della Repubblica nonostante i limitati progressi elettorali. Parte da una base che è un terzo (non un decimo) di quella iniziale del tycoon Berlusconi, oligopolista tv in servizio permanente effettivo, premier liberale di tre legislature, capace di portare le finanze pubbliche alla quasi-bancarotta neanche fosse stato il più statalista dei leader della sinistra.
Parte, Monti, da un terzo scarso dei voti che il solo Pci contava a metà anni ‘80: venticinque anni dopo un partito che – sulla carta – associa l’ex Pci con un pezzo dell’ex Dc raccoglie di meno nonostante il discredito mediatico-giudiziario seminato sugli avversari. Massimo D’Alema è riuscito a guidare il governo solo con un colpo di Palazzo che pugnalò alle spalle Romano Prodi. La candidatura Bersani, ora, sembra dipendere dall’umore dell’87enne premio Nobel per la letteratura Dario Fo.